Scritti

Borneo, oranghi e olio di palma

20 nov 2020

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Scritti

Borneo, oranghi e olio di palma

l'Adige, 2 settembre 2017

Borneo. Per noi italiani c’è subito l’eco dei libri di Emilio Salgari, grande scrittore d’avventura, con i suoi tigrotti della Malesia, Sandokan, le orge dei tagliatori di teste Dayaki. Anche se Salgari, incredibilmente, in Malesia non c’era mai stato. In Borneo dove la ricchezza della natura è travolgente, ebano, pepe, oro, diamanti, è possibile andare a trovare alcuni nostri parenti stretti, cioè gli oranghi, scimmie antropomorfe molto simili a noi: i primatologi oggi sostengono che questi grandi, meravigliosi scimmioni rossi sanno elaborare e tramandare cultura, proprio come homo sapiens. Non solo. Sviluppano comportamenti sociali complessi e una serie di caratteristiche, come la consolazione, l’empatia, il senso di giustizia e di reciprocità, che ne fanno i precursori della morale umana. Purtroppo la sopravvivenza dell’Orang Utan come lo chiamano qui (orang nella lingua locale vuol dire uomo, utan foresta) è minacciata dalla deforestazione e dalle nuove piantagioni di palme da olio. Triste destino condiviso da tutta la fauna, anche rara e protetta come l’elefante pigmeo, l’orso malese detto orso del sole, e il leopardo nebuloso. La stagione degli incendi appiccati per ricavare terreno fertile dalla foresta è iniziata a luglio e durerà fino a ottobre. Da decenni ne fanno le spese piante e animali incalzati dai coloni, dalle multinazionali del legname, da strade e raffinerie costruite dall’industria alimentare.

L’olio di palma, fa bene o fa male? Si leggono pareri di nutrizionisti, cuochi, biochimici, istituti di sanità. Ma da qui, dal Borneo in fiamme, la domanda appare sconveniente, quasi grottesca. Buono o cattivo che sia per il nostro fegato e il nostro palato, quel che è certo è che i nuovi palmizi producono una danno ambientale senza pari. Roghi immensi nella foresta esalano volute di fumo che salgono alle stelle, un falò gigantesco che è stato avvistato persino dalle stazioni spaziali orbitanti. Queste nuvole di cenere e carbonio che salgono dall’intera Indonesia varcano le frontiere di questa grande isola, per estensione la terza del Pianeta, e appestano mari e monti, fino al capoluogo malese, Kuching.

La palma da olio è una bella, robusta palma fronzuta del genere Elaeis, che di per sé non ha nulla di diabolico. Salvo l’essere diventata una monocoltura estremamente redditizia per le compagnie che ne gestiscono la coltivazione estensiva, sorde a qualsiasi appello da parte delle maggiori organizzazioni internazionali, come il Wwf, Greenpeace, Friends of the Earth e persino Amnesty international. Quest’ultima ha lanciato un allarme per le gravi violazioni dei diritti umani e sindacali dei lavoratori agricoli, spesso minorenni, impiegati nelle piantagioni. E’ da un paio di decenni a questa parte che l’isola del Borneo, e in particolare la parte settentrionale (Sarawak e Sabah), si trova a fronteggiare forse la maggiore devastazione forestale dell’ultimo secolo. Secondo un Rapporto FAO (organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura) a causa dei roghi l’Indonesia perde un milione di ettari all'anno di foreste pluviali. Gruppi di studio delle Università di Tasmania e Nuova Guinea, insieme alla Carnegie Institution for Science di Washington ritengono che l’80% della vegetazione primaria del Borneo sia ormai andata distrutta. La Malesia è il secondo produttore mondiale di olio di palma, dopo l’Indonesia, e produce annualmente quasi 60 milioni di tonnellate di olio, di cui quarantaquattro milioni per l’export internazionale. Il ritorno economico del commercio di olio di palma è un grande contributo all’economia del Paese, ed è quindi difficile (e rischioso per i giornalisti locali) metterlo in discussione.

Su quest’isola ci sono due incontri da non perdere: con gli indigeni e con gli oranghi. I “pirati Dayaki” descritti più di un secolo fa da Salgari nel romanzo d’avventura Sandokan alla riscossa (una curiosità: Sandakan, con la a, è il nome una cittadina del Borneo malese) sono i padroni di casa insieme ad altri popoli indigeni come gli Iban, che vivono in lunghe case sui trampoli (longhouse) la loro vita comunitaria in foresta. Nessuno di loro taglia più le teste, e tantomeno ai turisti, anzi è più facile che li intrattengano con musica e danze. Gustare un bicchiere di acquavite di riso tuak sulla terrazza in legno di una comunità Iban è un’esperienza impagabile: con un po’ di fortuna è possibile farsi raccontare la loro storia antica e recente, che include episodi eroici ma anche drammatici: come le migrazioni forzate dovute alla costruzione di grandi dighe per lo sfruttamento dell’energia idroelettrica, e la resistenza, cerbottane contro le ruspe, allo scempio delle loro terre.

Quanto agli oranghi sono primati molto particolari, tranquilli e pacifici, si direbbe persino meditativi. Si cibano tutto il giorno di frutti maturi, foglie succose, funghi e formiche. Essendo arboricoli, a terra appaiono sgraziati, ma tra i rami sono acrobati spettacolari, trapezisti di prim’ordine. A meno di non programmare gite naturalistiche di qualche settimana, con guide indigene in foresta, gli oranghi si possono osservare nei centri di riabilitazione, che li ospitano e li curano. I racconti dei forestali sono quasi sempre gli stessi: animali scampati alle fiamme, disidratati, traumatizzati, disorientati. Spesso braccati illegalmente. Se una madre in fuga dalla foresta in fiamme, con il piccolo attaccato al pelo, si spinge verso un villaggio, gli indigeni la colpiscono a morte per sottrarle il cucciolo. La madre viene cucinata e mangiata. Il piccolo di orango, venduto al mercato nero alla frontiera tra Indonesia e Malesia vale circa ottanta dollari: finirà i suoi giorni prigioniero nella gabbia di qualche zoo privato. Diversi centri, tra cui quello di Sepilok e altri gestititi dalla Orangutan Foundation International, riabilitano gli oranghi profughi o schiavizzati: li rifocillano evitando però di abituarli al contatto con gli umani e li reintroducono in natura, com’è giusto. L’apparizione di Richie rimane il momento clou di ogni viaggio in Borneo. Richie è un grosso maschio di orango, pesa 140 chili e ha 36 anni. Lo incontriamo nel Centro di Semenggogh, poco distante da Kuching, dove è considerato il “re della giungla” ed è più famoso del sindaco della città. Molti anni fa fu riscattato da uno scrittore locale che lo comprò in un villaggio dove stava rinchiuso in condizioni disumane, dentro una gabbia poco più grande di lui. Oggi Richie è libero, ma non ci tiene a lasciare il Centro. E’ diventato una attrazione internazionale, migliaia di turisti da tutto il mondo ne rimangono affascinati. Flemmatico, schivo e possente, scende dagli alberi di teak e tamarindo per agguantare caschi di banane che poi condivide con una femmina, a turno, del suo harem. Vederlo spaccare una noce di cocco con le mani è uno spettacolo, ha le braccia come tronchi, la sua forza equivale a quella di dieci uomini. Quando Richie sopraggiunge, anticipato da schianti e fruscio di fronde, i forestali invitano tutti al silenzio: se c’è una cosa che visibilmente lo infastidisce sono gli strilli acuti dei bebè, oranghini o bambini che siano. Lui, burbero filosofo, non fa differenze. Sotto il debordante parruccone di pelo rossiccio, Richie sembra covare pensieri consapevoli. Forse riguardano la relazione tra la sua specie e la nostra.

 BOX olio di palma

L'olio del frutto della palma, è un olio ad alta concentrazione di acidi grassi saturi. Oltre ad essere un ingrediente di molti prodotti alimentari (dove leggete “olio vegetale” sulle etichette dei biscotti, quello è olio di palma) è ampiamente utilizzato in cosmesi per saponi e detergenti. In forma non raffinata è usato persino come combustibile. In Italia il maggior impiego di olio di palma proviene dalle aziende di dolci e cosmetici. A livello internazionale gli oli ricavati dalla palma rappresentano oltre il 32% della produzione mondiale di oli e grassi. Rispetto agli oli di girasole e di oliva, l’olio di palma è industrialmente conveniente perché viene prodotto senza considerare né ripagare i danni ambientali, in Paesi dove il costo del lavoro è bassissimo.

A seguito delle critiche nei confronti delle multinazionali del legname e dell’industria alimentare, responsabili della drammatica deforestazione in Borneo, nel 2004 è nata la Roundtable Sustainable Palm Oil (RSPO), cioè una Tavola rotonda per l’olio di palma sostenibile. Dal canto suo l’Unione Italiana Olio di Palma Sostenibile ha lanciato una vera e proprio controffensiva sul piano della comunicazione, difendendone il consumo. Sono tuttavia in aumento le aziende che oggi ripropongono i loro prodotti “senza olio di palma”. Altre, sebbene abbiano aderito ai criteri della RSPO, dichiarano di utilizzare solo olio di palma proveniente da aziende certificate. Il problema è che un olio di palma sostenibile prodotto senza tagliare le foreste dovrebbe avere origini conosciute e quindi tracciabili, ma si tratta di un’illusione. Uno dei maggiori esperti della questione è un italiano, il professor Roberto Cazzola Gatti, Direttore scientifico del Master in Biodiversità presso la Facoltà di Biologia della Tomsk State University (Russia) e responsabile del Laboratorio di diversità biologica del Bio-Clim-Land Centre. “Ciò che in realtà accade anche nel caso delle produzioni sostenibili di olio di palma”, sostiene Cazzola Gatti, “è che le foreste primarie vengono comunque tagliate e bruciate, per essere poi convertite in palmizi. La certificazione avviene dopo che è trascorso qualche anno dalla deforestazione illegale, perché non ci sono leggi che obblighino le autorità a realizzare registri dei cambiamenti d’uso del suolo. In mancanza di mappature del territorio è impossibile sanzionare i tagli e i roghi illegali, e dunque evitare che una foresta possa essere trasformata in area agricola “certificata sostenibile”. E così l’inghippo è servito.

BOX orango

L'orango del Borneo (Pongo pygmaeus) è una scimmia ominide, endemica del Borneo. Nel suo habitat naturale trascorre la maggior parte della vita sugli alberi, nutrendosi di frutta: fichi, banane, rambutan, durian e manghi. Essendo inadatto a camminare sul terreno, è l’animale che più risente della deforestazione. L’orango è stato definito a rischio critico di estinzione dalla Lista rossa IUCN (l’Unione mondiale per la conservazione della natura) e perciò la sua caccia è vietata. Il Dipartimento di Antropologia dell’Università di Zurigo ha recentemente istituito un corso intitolato “Orangutan cultures”, perché dopo anni di osservazioni etologiche si è scoperto che gli oranghi hanno sviluppato tecniche, culture e persino linguaggi diversi. Caratteristiche, insomma, molto affini a quelle degli uomini.

BOX Borneo

Con i suoi 743 mila chilometri quadrati di superficie il Borneo, situato a metà distanza tra la Cina e l’Australia, è la terza isola del mondo, dopo la Groenlandia e la Nuova Guinea. La parte settentrionale è geopoliticamente divisa tra la Malesia (regioni del Sabah e del Sarawak) e lo Stato/sultanato del Brunei, mentre la parte meridionale, sotto l’Equatore, appartiene all’Indonesia. In Borneo il clima è costantemente caldo e umido con abbondanti precipitazioni. Grazie a questo clima sull’isola si riscontra una grande biodiversità. In Borneo si contano 1500 varietà botaniche di piante da fiore, 3000 specie di alberi, 221 specie di mammiferi terrestri e oltre 420 specie di uccelli. l’isola del Borneo è ricca di spezie, caffè, noci, olio di cocco, legname, riso, frutta e gomma. Possiede inoltre importanti giacimenti minerari di petrolio, ferro, oro e diamanti. Olanda, Inghilterra, Giappone e Indonesia nel corso dei secoli se ne sono contesi le ricchezze. Questa grande isola del Sud-est asiatico, è a tutt’oggi abitata dagli indigeni Dayak, Iban, Penan, Bidayuh e da altre etnie di cacciatori di religione animista (oggi semiconvertiti all’Islam e al Cristianesimo) che parlano diverse lingue austronesiane.

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