Parliamo di esotismo, esotismo domestico, immaginario, Victor Segalen, viaggi, turismo, folklore e folklorismo,
Vogue, giugno 203
"Se trovo una giovane francesina e questa è per mala sorte una ragazza per bene, rivedo di colpo la casa paterna e l'educazione delle mie sorelle: prevedo tutti i suoi gesti e le più fuggevoli sfumature dei suoi pensieri. E' perciò che amo le cattive compagnie: c'è più imprevisto. Per quel che mi conosco, è questa la corda che gli uomini e la vita italiana hanno fatto vibrare". Così scriveva Stendhal, "turista" in Italia, nel 1817. Vicino o lontano, il turismo è sempre stato legato alla ricerca della diversità : si lasciano la casa, le usate compagnie e i ritmi quotidiani per cercare avventurosamente altro. L'inconsueto, l'imprevisto.
Definire che cosa sia esotico e che cosa non lo sia è problematico, perché come si suol dire - e a maggior ragione lo ribadirà un antropologo - tutto è relativo. Non c'è dubbio, per esempio, che per lo scrittore Stendhal le ragazze italiane fossero esotiche. Quando si è in viaggio, la sensibilità per ciò che appare come tipico/topico aumenta: lo sanno bene i baristi della cittadina messicana di Tequila, dove l'omonimo liquore viene servito, ormai soltanto ai turisti, con il vermetto dell'agave affogato nel bicchiere. Fa tanto esotico, fa tanto etnico. L'esotismo è probabilmente una tendenza innata dello spirito umano. In tutti i tempi la letteratura ha espresso il fascino di terre e costumi sconosciuti, cui si attribuiscono doti straordinarie di felicità , di bellezza, di fortuna.
Nel suo Essai sur l'exotisme, concepito nel primo decennio del Novecento, Victor Segalen - medico francese, marinaio, scrittore e musicista - definì esoti i viaggiatori "che esultano per il diverso puro e semplice". Segalen li contrappose ai turisti pseudo-esoti, che non avrebbero elaborato una vera estetica del diverso, ma che si acconterebbero di sensazioni superficiali, convinti di avere capito tutto. In ogni caso, beccarsi dell'autentico esota rimane un complimento strano, che di solito non fa piacere.
Nella storia dell'umanità non si è mai viaggiato tanto come negli ultimi anni: per curiosità , per moda o necessità . La mobilità turistica, questa "diserzione ludica" dal mondo del lavoro, è divenuta il fenomeno antropologico più rilevante della contemporaneità . Ma ha ancora un senso riflettere sui riti del turismo - e sul viaggio in generale - in tempo di crisi dovuta alla paura delle epidemie e delle guerre? Certo che sì. Proprio perché non sempre appare chiaro, nella coscienza comune, quanto i nuovi flussi abbiano un diritto e un rovescio.
La planetarizzazione ha messo in campo sirene affascinanti ma anche pericolose. Non si può avvicinarle senza rimanerne in qualche modo contagiati. Merci, idee, malattie, informazioni, denaro e persone viaggiano per le strade del mercato-mondo. Quello dove s'incrociano flussi di turisti e di immigrati. Quello che ci permette di avere le banane dal Centroamerica e i giocattoli per i nostri bambini da Taiwan, e che consente di spostarci dai Navigli a un villaggio turistico del Kenya, in meno di ventiquattr'ore.
La lontanaza di usi e costumi, però, non è necessariamente distanza in senso geografico. E infatti esiste un turismo esotico di prossimità , particolarmente attento ai dislivelli interni, cioè alle manifestazioni della nostra cultura popolare. A ben vedere, neppure questo è un fenomeno nuovo. Fin dal XVII secolo l'aristocrazia bavarese, incuriosita dalla musica popolare, se la spassava in villeggiatura giocando alle "nozze contadine". Le feste folkloriche sono del resto il leit motif di molti diari di viaggiatori del Grand Tour, per i quali la miseria risultava pittoresca.
Esotismo e folklorismo sono entrambe forme di terapia di fuga. Se vogliamo, sono caratteristici della ricerca affettiva e identitaria dell'uomo moderno, malato di complessità . Guardare a un altrove o a un passato migliore, pieno di valori, ci aiuta a vivere la banalità della routine quotidiana. Ne abbiamo bisogno. Tanto bisogno, che quei valori tradizionali... siamo disposti anche a inventarli (vedi i sospetti revival di feste e ricette medievali).
Placata la smania dell'atollo, si fa dunque turismo domestico, attento alla nostra storia e aperto alle influenze planetarie. Così come ormai s'è aperta a nuovi modi e mode la vita dei giovani, che mescolano tatuaggi polinesiani, henné marocchino, berretti peruviani e piercing indiani. Sulle nostre strade provinciali allignano prostitute nigeriane, in discoteca impazzano hit di fortunati cantanti meticci, e non c'è fiera che non proponga bancarelle etniche, se non ardite contaminazioni gastronomiche. Così va il mondo, anche quello piccolo e antico.
Il turismo come gioco dello spaesamento praticato altrove, diventa allora un gioco dell'appaesamento. Cioè di un nuovo radicamento, non tanto in base a criteri di appartenenza, quando di esplorazione delle "pieghe" della realtà . Come farlo in maniera touristically correct questo gioco, dopo tanti dibattiti sulla sostenibilità ? In Africa era paradossalmente più semplice: tali sono i contrasti tra il nostro stile di vita e quello nei Paesi in via di sviluppo che è diventato quasi impossibile non accorgersi dell'impatto ambientale di certe strutture turistiche. O delle messe in scena (tipo danza tribale nella hall dell'albergo) ideate per compiacere il nostro esotismo di visitatori superficiali. Per quanto riguarda l'Italia, l'Associazione italiana turismo responsabile ha elaborato una sorta di carta etica intitolata "Bel paese buon turismo". Dove si scopre, per esempio, che la fretta è sempre cattiva consigliera e che conviene vedere meno e meglio piuttosto che seguire il rovinoso claim "di tutto e di più", lanciato a suo tempo dalla Rai.
Lo stesso può valere per le abbuffate campagnole. E fermiamoci qui, su questi benedetti sapori che avrebbero attraversato i secoli. Non sarà venuto il momento di proporre un turismo più morigerato, più sobrio, più attento? Lo dico perché ho il forte sospetto che le scorpacciate di prodotti regionali (posto che l'onnipresente salamella funga ancora da alibi per il turismo culturale) tendano più ad ottundere i sensi che ad espandere la coscienza.
Se un tempo l'esotismo alimentare dei regnanti medievali, che ostentavano sulla tavola raffinati menù stranieri, rispecchiava la volontà di superare la dimensione locale della cucina, oggi i sapori "altri" sono divenuti oggetto di un vero e proprio esotismo popolare. Come ha osservato lo storico dell'alimentazione Massimo Montanari: "L'esotismo di massa che qualsiasi supermercato consente a chiunque di realizzare, non è che la democratizzazione - discutibile sul piano del gusto, ma perfettamente logica sul piano culturale e simbolico - di un sogno lungamente perseguito a livello elitario". Ma attenzione al monito di Italo Calvino a proposito dei ristoranti esotici delle nostre metropoli, i quali starebbero ai paesi d'origine come ricostruzioni ambientali filmate in studio, rispetto alla realtà . Pessimista? Ma no, purché vi sia occasione di stupore. Purtroppo, in certi casi, d'imprevisto c'è soltanto il conto.