Il camoscio di Tartarino. Ovvero il teatro dell'ambiente alpino (e le sue quinte).
Sintesi del testo presentato il 28 settembre 2001 al Salone internazionale della montagna di Torino, nell'ambito del Workshop "Comunicare attraverso l'immagine l'alpinismo, la montagna e le culture delle montagne". L'Alpe, Estate 2002
Chi non ricorda Tartarino di Tarascona, l'avventuriero grassoccio e sbruffone uscito dal caustico pennino dello scrittore francese Alphonse Daudet? Ebbene, reduce da mirabolanti safari africani, nel 1885 Tartarino approda in Svizzera. In questo nuovo contesto, sulle selvagge pendici del monte Jungfrau, egli alloggia presso l'albergo "Al camoscio fedele". I camosci, a dire il vero, sono scappati tutti a causa del clamore che accompagna le comitive di turisti. Ma il gestore ne ha addomesticato uno per il piacere della clientela. L'animale ubbidisce ai cenni del padrone, ora mostrandosi, ora nascondendosi ai turisti cacciatori. I quali, dopo una serie di elusivi avvistamenti, avranno lo spunto per scambiarsi i soliti racconti di gesta venatorie. Per poi scoprire, come difatti accade a Tartarino, che ogni sera il camoscio viene a bere il vino caldo da una ciotola, sulla veranda dell'albergo.
Ho sempre pensato che il camoscio ammaestrato di Tartarin sur les Alpes sia per molti aspetti l'antenato delle "caprette che fanno ciao" di Heidi. Questo animale, infatti, esplicita in maniera caricaturale quello stupefacente miscuglio di natura selvatica e natura "educata" ravvisato nel paesaggio alpino già da Jean-Jacques Rousseau, nel romanzo epistolare Julie ou La Nouvelle Heloise (1761).
Un secolo dopo le romantiche escursioni di Rousseau, cioè a fine Ottocento, sugli stessi sentieri si incrociano viaggiatori in contemplazione e comitive chiassose, sognatori, curiosi e borghesi buontemponi in cerca di svago. Incredibile a dirsi, nella seconda metà dell'Ottocento, cioè all'epoca di Tartarino, i vignettisti già mettono in ridicolo questo nuovo e contraddittorio scenario. Tanto che si arriva a suggerire provocatoriamente la costruzione di una tour Eiffel alta duemila metri, dalla quale raggiungere comodamente via cavo la vetta della Jungfrau. Alcuni giornali illustrati, come lo zurighese Nebelspalter, denunciano la meccanizzazione della montagna, attraverso un'iconografia satirica che trasforma le cime inviolate in "montagne russe", da luna park.
Anche la ricettività alberghiera "" con i suoi comfort omologati agli standard urbani - suscita antiche polemiche. Sempre a metà Ottocento lo scrittore John Ruskin, membro dell'Alpine Club inglese, propugna una sorta di religione della montagna per soli artisti e geologi, definendo gli hotel che "infestano" le Alpi nientemeno che una "lebbra bianca". Nel 1896 lo scrittore viennese Eugen Guido Lammer ribadisce: "Gli alpinisti schietti sono nemici di tutte le ferrovie di montagna, degli hotel alpini con camerieri in marsina, di ogni trasformazione artificiosa della rude natura montana, perché l'asilo dei fuggiaschi della civiltà viene sempre più a restringersi con siffatte apparenti migliorie".
Con l'impossibilità della "fuga", finisce l'incanto. Hermann Hesse, autore del longseller Siddharta e premio Nobel per la letteratura nel 1946, a proposito delle masse di turisti tedeschi (siamo in Ticino, nel 1930) osserva: "I nuovi mezzi di spostamento tolgono ogni piacere di scoprire la diversità o l'amenità dei luoghi, in particolare degli ultimi paradisi rimasti (...) Il danaro, il lusso, le automobili, la tecnica si sono impadroniti anche di questa regione che sino a non molto tempo fa era incantevole (...) Dappertutto dove si posa l'occhio nuovi palazzi, nuovi alberghi, nuove stazioni, tutto si ingrandisce, dovunque alzano case aggiungendovi un nuovo piano".
Accanto all'immagine dell'oasi naturale primitiva e ispiratrice delle più alte introspezioni si è infatti diffusa quella del playground of Europe: così Leslie Stephen (padre di Virginia Woolf) definì la Svizzera nel 1871: il parco giochi d'Europa. Un divertimentificio, si direbbe oggi.
Da una parte l'immaginario alpinistico ha sempre idealizzato la montagna come luogo dei valori, cioè come sede residua di autenticità , dal punto di vista naturale e culturale. Dall'altra, sin dai suoi esordi, la promozione turistica ha accolto tale immaginario, attrezzando la montagna ed enfatizzando la spettacolarità delle sue attrazioni. Sia le attrazioni turistiche naturali (il paesaggio e la fauna), sia le attrazioni turistiche culturali (il folklore) vengono così messe in scena, rese altrettante performance, teatralizzate. Le masse salgono, le mode incalzano. Il primo turismo è un formidabile agente di globalizzazione, che inevitabilmente genera fenomeni di rigetto. Tra i quali, appunto, la satira. Da secoli, ormai, le Alpi sono oggetto di una singolare dialettica tra contaminazione e incontaminazione. Una diatriba che produce aspetti paradossali e talvolta decisamente comici. Ma, a quanto pare, sempre di grande attualità .