Intervista di Anna Maria Eccli per "ilT"
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Duccio-Canestrini-intervista-di-Anna-Maria-Eccli-2023.pdf
«Niente e nessuno è libero da influenze. E se lo fosse non starebbe troppo bene». L’ha scritto Duccio Canestrini qualche anno fa, nel suo «Antropop. La tribù globale». Antropologo, professore universitario, autore teatrale (il 9 febbraio riandrà in scena a Rovereto “Pezzi d’uomo”, scritto a quattro mani con Giovanni Battaglia), narratore finissimo e curioso cronico, classe 1956. A parlare un lessico da melting pot è la sua stessa vita, straordinariamente ricca, avventurosa, incostante anche, ma illuminata da grande sensibilità. Un razionale, così si descrive, “che si è aperto a empatia e tolleranza”. Ha viaggiato in ogni angolo del pianeta come inviato della rivista “Airone”, acuendo un’indole da argonauta che vede nell’amore e nella conoscenza le uniche stelle polari capaci di condurre avanti l’umanità. Convinto che quella dell’antropologo sia una forma mentis da portare a quante più persone possibile (per l’approccio demitizzante e liberatorio, speculativo e aperto che innesca), è anche abilissimo divulgatore che fa il pieno nelle sue conferenze-spettacolo. È in libreria con la nuova edizione ampliata di «Trofei di viaggio», recentemente presentato in Biblioteca Tartarotti da Marco Perinelli, un’incursione nel mondo delle cianfrusaglie, le “orrende stranezze” (dalla gondola di plastica con led, alla boccia con torre Eiffel e neve) che chiamiamo elegantemente souvenir, letteralmente memorie. Vi rovista attento a non distribuire pagelline: “bello” e “brutto”, dice, sono categorie relative, «autentico è ciò in cui crediamo». Forse è per questo che accanto alla foto della madre, la fertile, intelligentissima e terribile scrittrice Nives Fedrigotti, ricovera pensieri e carezze, frammenti scritti su foglietti che parlano d’un dialogo mai interrotto. Attualmente studia “i percorsi dell’utopia” e i pericoli legati a un’umanità sempre più cyber, convinto che il lavoro dell’antropologo, in una stagione di grandi rivolgimenti scientifici, politici e morali, sia non soltanto analizzare, ma contribuire a migliorare le relazioni tra i viventi.
Professore, cosa distingue questa nuova edizione di «Trofei di viaggio»?
L’ho riscritto e aggiornato, aggiungendo qualche capitolo. Ne ho sentito il bisogno, col lockdown si è desiderato molto viaggiare, ma si poteva solo sognare e ricordare.
Reporter per “Airone”, docente universitario a Lucca, scrittore, grande comunicatore, ma non ha mai lasciato la natia Rovereto.
Ho viaggiato tanto, sì, ma ovunque tu vada scopri che il paradiso terreste non esiste. Alla fine, ci sono altri modi per conoscere il mondo. Leggere, per esempio. Rovereto è un posto tranquillo per lavorare, e stamattina, come ogni mattina, mi sono ritrovato a scrutare lo Stivo affascinato dalla sua carismatica silhouette. Bianco, verde o rosa, con o senza cappello di nubi, lo sento autorevole nella mutevolezza del suo manto, anche quando sta come una piovra nel torbido della mareggiata, ancorato agli scogli del fondovalle, sempre vivo. È una montagna che mi piace, non è una barriera contro cui vanno a sbattere i pensieri, per me è un nume tutelare, che promette e permette un “oltre”.
In “Turistario”, pubblicato nel 1993, la critica feroce contro il turista “che ha fatto i Caraibi” e sfregia l’atollo per portarsi a casa il souvenir.
Sì, l’avevo scritto a colpi di sciabola, anche perché all’epoca le riviste promuovevano destinazioni, non parlavano di turismo e io volevo rompere gli schemi. Mi interessava indagare un fenomeno sociale che, diventato industria, ha devastato ecosistemi, trasformato il turista in “merce viaggiante” e il tempo libero in svago obbligato.
Oggi sembra più tollerante verso il kitsch, un relativismo da sofista?
Ma l’antropologo “deve” essere relativista e comparatista, è la prima regola. La stessa categoria concettuale di kitsch è storica, non morale.
Avrà anche lei degli assoluti, però… in cosa crede?
Credo nell’amore, che è la cosa più importante che ci sia sul pianeta, e nella conoscenza, nel continuare a imparare, seconda cosa più importate.
È autore di “Terra felix”, conferenza-spettacolo multimediale.
Sì, è una storia delle utopie, dai miti alle leggende del medioevo, dal paradiso terrestre alle isole fortunate, all’Arcadia, all’Eden giudaico-cristiano, alla cuccagna… Utopia come desiderio universale, bisogno di trascendenza, di “altrove felice”. Non è solo un discorso storico-antropologico, perché rimanda alla sostenibilità, al come dovremmo vivere, in modo empatico, incruento, pacifico. Ma gli scenari che si stanno configurando nella realtà sono ben altri.
Ce ne parla?
Si parla di transumanesimo, un’evoluzione dell’uomo grazie alle nuove tecnologie, una sorta di upgrade, di aggiornamento genetico e informatico, di Homo Sapiens.
Gli uomini ibridati con la macchina rappresentano una frontiera interessantissima per il trattamento delle disabilità, però.
Certamente. Il problema non sta nelle protesi che migliorano la qualità della vita, o nell’implementazione delle nostre capacità mnemoniche, ma nell’essere entrati nel codice della vita stessa, manipolando il Dna, più o meno alla luce del sole, al di fuori di una cornice etica. L’interfaccia uomo-macchina spalanca scenari inquietanti come l’eventualità di creare backup digitali delle nostre intelligenze, qualcuno dice della nostra anima. Da un lato le progressive sorti della scienza, all’insegna del miglioramento dell’umanità, un discorso pericoloso che accomunava il socialismo sperimentale all’eugenetica nazista, dall’altra c’è un conservatorismo secondo cui è sempre immorale intervenire sul corpo umano e sulla nostra “natura”. Sono due posizioni opposte.
Una dimensione profondamente etica.
Quantomeno una preoccupazione, sì, anche se le etiche possono essere diverse. Le innovazioni così come le tradizioni sono interessanti, ma non dovrebbero violare i diritti umani e quelli degli altri animali. Anche la legge del taglione è tradizione, lo è la corrida, lo è lo sfregio della prostituta albanese, che si ribella al racket. Anche basta, direi.