l'Adige, 10 luglio 2016
Marianna, una ragazza nata in Madagascar e adottata da una coppia italiana all’età di tre mesi, è stata sulla “sua” isola africana per fare la tesi di laurea. Al rientro mi dice, stupefatta: “Ma sa che mi scambiavano per una di loro?”. Per forza, le rispondo, sorridendo della sua sorpresa, hai la pelle nera, e sembri una di loro. Solo che Marianna, cresciuta in Toscana non parla una parola di malgascio e si è sempre considerata bianca. Meglio così, che abbia scoperto la sua negritudine senza drammi.
Categorie di persone. Quelli che con una bella dormita passa tutto, anche il cancro. Quelli che quando perde l'Inter o il Milan dicono che in fondo è una partita di calcio e poi picchiano i figli. Così cantava nel 1975 Enzo Jannacci, con allegra ironia sulla facile classificazione delle persone, sui tipi stereotipati, su quelli che (appunto) si inventano appartenenze, gruppi, identità. Quelli del Bangladesh, che nella testa di quattro scemotti, dopo i fatti di Dacca, sono diventati tutti assassini: lungomare di Porto d'Ascoli, esame forzato di Vangelo ai bengalesi venditori di rose, insulti e botte. Quelli che hanno la pelle scura, visti come un’unica categoria umana, di volta in volta inferiore, temibile, in qualche modo colpevole di coesistere. Questo da parte di “italiani veri” e fieri, come l’allevatore di tori che ha massacrato l’immigrato Emmanuel Chidi Namdi, qualche giorno fa a Fermo. E così va a finire che all’estero, leggendo queste tristi notizie di cronaca, si fanno un’idea dell’Italia, come Paese retrogrado e razzista, generalmente parlando. Cosa che siamo solo in parte, per fortuna. Perché non mancano quelli che ragionano su queste problemi e quelli che li chiamano a vanvera buonisti: i cattivisti?
Le categorizzazioni di persone si costruiscono, si “ereditano” con la mala educazione, si sformano vivendo circondati da persone che condividono triti e dannosi luoghi comuni. Vecchi retaggi rinforzano categorie sbagliate, generalizzazioni indebite che non hanno mai retto, né ieri né oggi. Curioso che in quest’epoca di evoluzione tecnologica, intelligenza artificiale, digitalità e robotica ci troviamo di fronte a questioni ottocentesche, a discriminazioni razziali, diritti negati, guerre di religione. Il pregiudizio è sempre in agguato. Se una donna colombiana deve sbrigare una pratica complessa allo sportello delle poste, diventiamo all’improvviso intolleranti con tutti i sudamericani. Se un muratore albanese fa un muretto storto, ecco che la tentazione è quella di sostenere che gli albanesi fanno i muri storti, dimenticandoci di tutti quelli (quelli che) costruiscono muri perfettamente a piombo. E via categorizzando.
Le scienze cognitive potrebbero aiutarci a capire come funziona la costruzione di categorie, di mappe mentali, di classificazioni funzionali o pregiudiziali. L’equipe coordinata da Alessio Avenanti, per esempio, neuropsicologo docente all’Università di Bologna, si è occupata di empatia con metodi comportamentali e neurofisiologici non invasivi (risonanza magnetica funzionale) per capire come funziona il “cervello razzista”, impermeabile per così dire al dolore altrui e alla compassione nei confronti dei diversi. Naturalmente gli stereotipi interiorizzati possono bloccare l’empatia (il saggio si trova online su Current Biology, giugno 2010). Le categorizzazioni di persone si decostruiscono, cioè si smontano, con informazioni, educazione e cultura. Aggiungerei con i viaggi e con l’ascolto di persone che hanno esperienza del mondo, non soltanto del proprio territorio. Dico persone. Individui, come ciascuno di noi, a prescindere dalla provenienza, dall’aspetto e dal bagaglio culturale di cui ciascuno è portatore.
La canzone di Enzo Jannacci è ironica, ma fino a un certo punto (Quelli che votano a destra perché hanno paura dei ladri; oggi si potrebbe aggiungere perché hanno paura degli immigrati). In quel buffo testo le categorie di persone sono anche artificiose e diventano paradossali (Quelli che non hanno mai avuto un incidente mortale) tanto da non stare più in piedi come categorie. E si ripresentano come veri e propri deficit cognitivi. Grappoli di stereotipi accompagnano normalmente anche i campionati di calcio: ecco che i francesi sono così e così, anche se nel frattempo il mondo cambia e la squadra è per metà di origine extraeuropea. I nazionalismi non aiutano. Vorrei dire le nazionalità, oggi, non aiutano. Il concetto stesso di Stato nazione è ottocentesco e superato da nuovi assetti globali. Viaggiano le persone, le merci, i farmaci, la musica, le idee. Ascoltare attentamente, con spirito critico, le parole dell’inno nazionale italiano, per esempio, fa orrore; il testo è coloniale, razzista, guerrafondaio e sarebbe da cambiare subito. Quanto ai tifosi sugli spalti, le facce dipinte con i colori nazionali e altre amenità patriottiche, possiamo certo fare finta che sia una cosa simpatica, giustificabile, goliardica, folclorica, tutto quello che volete, un rituale della contemporaneità. Ma come mostrano poi le cronache, i sentimenti e il tifo identitari in certe persone producono – anche - esiti socialmente insani.
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