Ticino7, 2 giugno 2017
Cinque minuti prima di atterrare all’aeroporto di Kuala Lumpur, la hostess annuncia con voce cristallina: “Si informano i passeggeri che in Malesia per i trafficanti di droga vige la pena di morte. Grazie per la vostra attenzione”. Ma prego, grazie a lei! Poi, un’adorabile zaffata di spezie, vapore caldo e anidride monsonica. Ed entri in un’altra dimensione: più avanti, non più indietro, nel tempo. Perché Kuala Lumpur, il sonnacchioso capoluogo fondato a metà Ottocento alla confluenza dei fiumi Gombak e Kelang (in lingua malese significa "confluenza fangosa") oggi è diventata una metropoli multietnica che attira dieci milioni di visitatori l’anno. Un’importante enclave della finanza internazionale. Un laboratorio di accelerazione dello sviluppo. Tra templi cinesi e indù, torreggianti sedi di banche e grattacieli a forma di Dna, la vita urbana è multilivello. Skywalk, passerelle, treni monorotaia, parchi a gradoni, padiglioni sopraelevati.
Kuala Lumpur, detta KL, non è un posto pedonale, salvo i giardini e i quartieri etnici: è invece una giungla metropolitana, dalle proporzioni fuori scala. Per andare a piedi da A a B nel cosiddetto Golden Triangle, il triangolo d’oro del business, devi scavalcare cordoli, corsie, guard rail, superare mall giganti, cantieri aperti e impalcature. Finché non ti si para dinnanzi un grattacielo immenso che ti fa perdere l’orientamento e ti fa sentire come un topolino in una foresta di canne di bambù. Riesci a vedere, forse a capire, solo ciò che sta ai primi piani degli edifici, ma la vita si sviluppa tutta in verticale: con ristoranti, massage parlour, uffici, palestre, negozi, e ancora su.
Ma a guardare troppo in su si rischia grosso, perché i marciapiedi sono costellati di tombini aperti. Occhio a dove mettete i piedi. Non credo che vincereste una causa legale contro la municipalità se ci finiste dentro, alla faccia delle nostre norme di sicurezza. Ma queste sono anche le cose belle dei viaggi, quelle che ti fanno pensare, ragionare, paragonare. Sulle nostre garanzie, sul senso della vita (e su quello dei tombini aperti). L’escursione termica in agguato è terrificante: fuori 34 gradi, dentro 14. Dove per dentro s’intende: negozi, uffici, ristoranti, treni, corriere, taxi bianchi e rossi. All’interno dei quali rimani, oltre che ibernato, imbottigliato. Consolazione, starci mezz’ora costa 8 Ringgit, meno di due franchi. Sicché la cosa da fare, invece, è vestirsi comodi e leggeri e immergersi nella folla tra le bancarelle di Chinatown dove, beninteso, non ci sono solo cinesi, ma una spettacolare ibridazione di tipi antropologici. Ecco perché dicevo che qui sono avanti: l’immigrazione non è un problema, la convivenza tra le tre culture principali, cinese, indù e malese, è normale. Per non dire degli edifici coloniali, che ricordano le varie fasi della dominazione europea: nel Quattrocento i portoghesi, nel Seicento gli olandesi, nell’Ottocento gli inglesi.
Dico avanti, perché molti esercizi commerciali espongono cartelli in cui si offre lavoro a camerieri, manager, contabili, traduttori, artigiani, basta saper fare qualcosa. Avanti, perché le transazioni commerciali sono tutte digitalizzate, anche un biglietto d’autobus da dieci centesimi. Avanti, perché KL presenta scenari che ricordano un po’ il tecno-Oriente del film di fantascienza Blade runner: mercatini schiacciati da torri al neon, acquazzoni caldi, rombo di tuoni che fa scattare l’antifurto delle automobili. E poi la gioventù. Bigliettai, venditori, receptionist, impiegati, cuochi. Riguardo le mie foto e non vedo una sola testa bianca tra migliaia di persone al mercato. Possibile che qui abbiano tutti un’età compresa tra 17 e i 30 anni? Dove sono finiti gli anziani?
Camicia fradicia. Ne compro una su un banchetto di Brickfields, il quartiere indiano, dove le chiavette Usb da 128 Gigabyte vanno via come noccioline, e quasi allo stesso prezzo. Il tipo chiacchiera volentieri, ha vissuto a Londra due anni. Mi avverte, con un sorriso: i giornalisti che fanno le domande sbagliate qui non lavorano più.
BOX Vade retro Beauty and the Beast
Sembra una barzelletta, ma non lo è. Il viceministro degli Interni malese Datuk Nur Jazlan Mohamed (figlio dell’ex ministro dell’Istruzione) ce l’ha con la Bella e la Bestia. Il famoso film di Disney in Malesia ha trovato infatti lo scoglio del Film Censorship Board, la censura governativa. La scena incriminata è brevissima, si tratta di una canzone che mostra una scherzosa complicità tra il cacciatore Gaston e il suo aiutante. Ebbene questo “gay moment” come è stato definito, non passa. Primo perché in Malesia è vietato promuovere l’omosessualità. Secondo perché, recita il comunicato, “questi comportamenti potrebbero influenzarci”. Disney non censura, il film non si vede.