Giornale l'Adige, 22 gennaio 2023
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In una trattoria di mezza montagna sopra Rovereto, sessant’anni fa, mi insegnarono a mangiare i pettirossi. Faceva parecchia impressione. Degli uccellini arrosto (passeri, fringuelli, cince tutto quello che volava) si dovevano sgranocchiare anche gli esili ossicini, e persino il cranio, tenendo il becco tra il pollice e l’indice.
Oggi suona come un racconto horror. Così come non si trovano (quasi) più le torte impastate con il sangue dei maiali appena sgozzati. Il mondo cambia, le sensibilità e i gusti mutano: le montature degli occhiali non sono più di vera tartaruga, le pellicce di vero leopardo sono improponibili, e così anche gli usi e le culture alimentari evolvono. Tra gli studenti vanno forte le scodelle hawaiane poke, i kebab pakistani (perlopiù d’importazione turca) e il sushi, che com’è noto di giapponese ha sempre meno gli ingredienti.
Lungi dall’auspicare il ritorno a una cucina tradizionale che i vegetariani definiscono “cadaveriana”, seguo con interesse il dibattito sul pesce e sulla carne sintetica, essendo un tema prettamente culturale. Nei primi anni ’80 ai corsi di antropologia dell’Università di Siena studiavamo il valore simbolico dei capi di bestiame (quel caput da cui deriva la parola capitale, quelle pecore da cui deriva la parola pecunia) e le diverse ritualità connesse alla spartizione e al consumo della carne di animali presso i pigmei e gli eschimesi. Ma erano popoli che cacciavano per sopravvivere con archi e arponi, culturalmente molto distanti dai banconi dei supermercati Poli ed Eurospar.
Oggi il sushi coltivato in provetta, un “pesce che non ha mai visto il mare”, è accusato di impostura. Anche se basterebbe dichiarare in maniera trasparente di che origine e natura sia il cibo in vendita, lasciando poi la scelta ai consumatori. Nel caso della carne sintetica le corde sembrano essere ancora più sensibili, perché le nostre tradizioni “primitive” ammettono la macellazione dei cuccioli di diverse specie di animali domestici, mammiferi come noi. Dunque ligio a una sorta di primitivismo, a qualcuno la carne-non-carne pare un abominio, una perversione della modernità. Ed è sicuramente una questione che scuote le coscienze, che nelle discussioni suscita arroganze e sensi di colpa, che spesso infiamma gli animi. Oltre a toccare interessi economici rilevanti, quelli degli addetti al settore. Ecco quindi inalberare da parte di Coldiretti l’aggettivo araldo di ogni correttezza: sostenibile. Allevamenti, mattatoi e bistecche sostenibili. Cioè filiere della schiavitù animale e del dolore che dovremmo considerare il vero buon mangiare. Come se un’attività che comporta spargimento di sangue potesse essere sostenibile.
In linea con le recenti animose rivendicazioni governative (la carne sintetica minaccerebbe l’agricoltura, la salute, addirittura la nostra civiltà) il presidente della Provincia di Trento e l’assessore all’agricoltura, in nome della tradizione, hanno sottoscritto la raccolta firme di Coldiretti che punta a promuovere una legge che vieti la produzione del cibo sintetico. Intanto però a Trento, nei laboratori di Povo del Cibio, si è insediata l’unica realtà italiana a occuparsi di carne coltivata “in vitro”, questa nuova frontiera agroalimentare, la Bruno Cell. La quale evidenzia i vantaggi che potrebbe comportare questa produzione, in primis evitando la mattanza di animali. Per la verità, siamo ancora lontani da una nuova etica, poiché si parla di un brevetto e dello sviluppo industriale di un prodotto che sappia poi conquistarsi il mercato, con un prezzo competitivo. Ma poi davvero abbiamo bisogno di carne? Secondo il medico Umberto Veronesi, che fu anche Ministro della sanità, no, poiché eistono proteine nobili vegetali.
Sulla porta d’ingresso di un negozio di prodotti alimentari biologici di Rovereto c’è una locandina che propone una serie di appuntamenti presso l’Accademia di Comunità “La Foresta”, nei locali della stazione ferroviaria. Il titolo attira l’attenzione, e fa pensare: “La carne non esiste”. In effetti a ben vedere è come chiamare legname un cipresso e un albero di ciliegie, indifferentemente. La sede degli incontri è già vocata al pensiero critico sull’alimentazione, e non solo, si tratta degli stessi giovani formatori e imprenditori del Forno vagabondo (un forno sociale itinerante che viaggia per la Vallagarina a bordo di una cargo bike elettrica) e della Comunità frizzante (produzione di bibite fermentate a partire da piante locali), giovani attenti all’economia quanto all’etica, e naturalmente al cambiamento sociale. Se la carne non esiste, di certo esistono individualità animali, vittime di violenza. Come disse Paul MacCartney del Beatles (pare citando Lev Tolstoj): “Se i macelli avessero le pareti di vetro saremmo tutti vegetariani”.