Ticino7, 5 aprile 2019
Era Natale, c’era parecchia neve, con amici mi godevo una licenza breve dal servizio militare. Una sera ci scappò una palla di neve sul parabrezza di un catorcio che procedeva a passo d'uomo. Frenata, scivolata. Scende un signore basso di statura ma aggressivo, che ci vuole picchiare. "Perché", ringhia a denti stretti, "la mia macchina è come mia madre!". Si potrebbe ragionare se in quel caso si trattasse di una metafora, di una analogia o di altra figura retorica, ma il bruto non era affatto incline alla ragione. L’oltraggio per lui era stato gravissimo, praticamente alla stregua di un tentato matricidio. L’episodio mi è sempre rimasto impresso. Perché mai quell'uomo si considerava figlio di un’Opel Kadett? Perché si sentiva in dovere di difendere l’onore della sua automobile? O era soltanto amore?
I’m in love with my car, cantavano i Queen nel 1975, lato B della celeberrima Bohemian Rhapsody, "sono innamorato della mia auto!". E il rombo del motore registrato a fine brano è quello dell’Alfa Romeo del batterista Roger Taylor. Amore platonico, mercenario, carnale, mistico: l'automobile è oggetto di tutte queste declinazioni del sentimento amoroso. Di più, l’automobile si nutre di un immaginario che la rappresenta quale mezzo di evasione e libertà, anche se tutti sappiamo per esperienza (di intrappolamento in colonna) che può diventare cella di contenzione. Gli spot pubblicitari, dal canto loro, ce la presentano come una caverna magica, un mezzo per compiere imprese mirabolanti: automobili paracadutate e salvifiche, auto che affrontano slavine e cicloni, auto immortali. La macchina è sacra. Come una madre, appunto, o il suo dolce ricordo. Del resto, qual è l’ambiente climatizzato e semovente nel quale stiamo comodi e contenuti all’inizio della nostra vita? Il pancione della mamma, naturalmente.
Ora vogliamo fare un salto dalla psicologia all'antropologia? La macchina non serve solo per andare. In macchina si dorme, si mangia, si legge, si aspetta, si fa l’amore. Si riflette. Si urla forte per sfogarsi coperti dal rumore del motore. L'automobile accompagna tutte le fasi della nostra vita, prendere la patente è uno dei più importanti riti di passaggio, un ingresso nella vita sociale da persone ormai diventate adulte. In automobile ci si va a sposare, e poi si riparte lasciando alle spalle la gazzarra degli amici. In automobile si va o si viene portati a casa dal reparto maternità. Sempre in automobile, sul carro funebre, ti trasportano al cimitero. Di rito, le scuse quando si fa salire qualcuno in macchina, sporchissima, mi dispiace. Ma figurati, sapessi, anche la mia... E intanto pensi: disordinata, proprio come lui.
MARCEL PROUST E L'AUTOMOBILE
La vera protagonista dei viaggi di Marcel Proust in Normandia è l'automobile, di cui il grande scrittore era entusiasta. Ciò che di più prezioso l'automobile ha restituito al viaggiatore, osserva Proust, è la meravigliosa indipendenza che gli permette di partire quando vuole e di fermarsi dove gli piace. "Mi comprenderanno tutti coloro a cui il vento, passando, ha infuso il desiderio irresistibile di fuggire fino al mare".
Nel 1907 l'auto era un mezzo di trasporto misterioso, che nella fantasia del letterato suscita suggestioni poetiche. Proust per fortuna non toccò mai il volante, perché la cura a base di caffeina prescrittagli dai medici (arrivò a bere 17 caffè al giorno) gli faceva tremare le mani tanto da non poter reggere la penna. Viaggiava con l'autista Alfred Agostinelli, che in seguito diverrà suo segretario, e amante. Agostinelli indossava un mantello di caucciù con un un cappuccio da "monachella della velocità"; guidando, sollecitava gli "organi nascosti " dell'automobile che producevano una musica come quella degli astri che ruotano nell'etere. Ad Agostinelli, appassionato anche di volo, Proust regalerà un aeroplano sul quale fa incidere alcuni versi del sonetto "Il Cigno" di Mallarmé. A causa di una manovra di pilotaggio sbagliata, Agostinelli precipiterà in mare, affogando, il 30 maggio 1914.
Marcel Proust, Impressioni di viaggio in automobile, a cura di Catherine Vidali, casa editrice LIBER internazionale, Milano 1993.