Parliamo di evasione, vacanza, viaggi, quotidianita, psicologia,
Yourself, mensile di psicologia, febbraio 2004
Disconnettersi, affrancarsi, evadere. Staccare la spina, tagliare la corda. Sono metafore di scioglimento dai legami di una quotidianità vischiosa. Che spesso ci fa agognare d'essere altrove. Dove si è andati o si andrà in vacanza è un argomento di conversazione convenzionale, spesso banale, cui poche persone resistono. Perché si viaggia, invece, è una domanda importante, quasi destabilizzante, che raramente ci si pone. Come mai? Ciascuno ha i propri motivi, evidentemente. O, meglio, i propri moventi. Certo è che la mobilità per turismo nella nostra società cosiddetta affluente, è generata da vissuti simili: la routine, il lavoro, la famiglia, le regole del nostro distretto produttivo.
Ripetersi, stanca. A volte sfinisce, e produce un naturale desiderio di variare. A pensarci bene, è come se avessimo tutti accettato il gioco di un'ordinaria oppressione sulla nostra pelle, compensata dalla conquista di una relativa capacità di spesa, che ci dà l'illusione della libertà . Sembra quasi che comprare oggetti o servizi - e, analogamente, consumare destinazioni turistiche - possa guarirci da un male endemico. Il male di fare e di correre, come criceti, ciascuno dentro la propria gabbia. Con il costante desiderio, più o meno represso, di cambiare aria. Tra i conclamati parametri del benessere, nessuno annovera la Felicità Interna Lorda.
Andarsene renderebbe molte persone felici. Cambiare, ricrearsi, godere. Di questa istanza profonda, si è accorta anche la pubblicità , che naturalmente cavalca l'onda. Non soltanto la pubblicità ideata dagli enti turistici per attirare flussi di clienti, ma anche quella delle automobili, della tecnologia digitale, delle bevande. Viaggi e vacanze, in questa prospettiva, sono armi di distrazione di massa. Una distrazione, a quanto pare, necessaria come il pane. L'ultima volta che sono stato in Vaticano ho visto una turista, all'apparenza scandinava, sdraiata in piazza S. Pietro, proprio sotto la finestra dove si affaccia il Papa. Si era alzata la gonna, slacciata la camicetta e rimboccata le maniche per offrirsi con gioia al sole italiano. Felice e incurante, a quella ragazza non interessava granché dove si trovasse: si godeva semplicemente l'evasione.
"Appena hanno qualche giorno di libertà , gli abitanti dell'Europa occidentale si precipitano all'altro capo del mondo, attraversano in volo metà globo, si comportano letteralmente come evasi dalla galera", ha scritto Michel Houellebecq, nel suo romanzo scandalo sul turismo sessuale intitolato Piattaforma. Ora, sul fatto che la nostra vita quotidiana sia una prigione si può anche discutere. Ma che il desiderio di andare somigli sempre più a una diserzione, o quantomeno a una licenza breve, non c'è dubbio. "Che stress!", quante volte lo diciamo e lo sentiamo dire? Eppure a volte si percepisce ancora un po' di orgoglio nell'ostentare un sovraccarico da lavoro. Anacronistico, oltre che malsano. Come se fosse la quantità e non la qualità del lavoro a nobilitare uomini e donne. Come se il sogno più diffuso tra chi spera di vincere alla lotteria non fosse quello di mollare gli ormeggi. A monte di ogni decisione sulla scelta e sulla specificità dei luoghi.
E allora le possibilità sono due: abbandonarsi a una vacanza intesa come stato alterato di coscienza; oppure concepirla come occasione di maggiore aderenza a se stessi. David H. Lawrence, nel romanzo L'amante di Lady Chatterley (1928) denuncia impietosamente il primo caso: "Tutti quei cocktail, i bagni nell'acqua tiepida, l'abbronzatura al sole cocente sulla sabbia arroventata, i balli al ritmo del jazz, premuti l'uno contro l'altro, e i gelati per rinfrescarsi, cos'erano se non una droga? Desideravano solo una cosa: narcotizzarsi"¦ Drogarsi e divertirsi! Divertirsi a tutti i costi!". Altro è ascoltare se stessi, per cercare di capire se la nostra autenticità può stare dentro i tempi di una latitanza, periodicamente consentita dai diktat della produttività competitiva. O entro i confini di un "sistema" che comunque ci insegue, avendo colonizzato anche il nostro immaginario. E infatti, in trasferta sulle Alpi o ai Caraibi, ci aspettiamo paradisi che non esistono, se non nella nostra proiezione.
La mobilità voluttuaria dei mezzi e dei corpi è una grande industria, ma prima di tutto è un fenomeno antropologico. Dei suoi riti, dei suoi paradossi, delle sue sorprese conviene essere consapevoli. Dopodiché, ciascuno vada dove, come e perché vuole. L'importante è sentirsi a posto con se stessi. La consapevolezza, insegnano i buddisti, è uno stato di coscienza superiore. Così come la qualità , forse non è per tutti.