Neosurrealismo. Il limite

11 feb 2020

Neosurrealismo. Il limite

Non ha torto il signor Merlino (come il mago?) che ha caricato in internet un video di Belen Rodriguez, accompagnato da un testo durissimo. Il testo non è della showgirl. Parla dell’Italia da un suicidio al giorno, per debiti, per disperazione. Dice che ormai il solo modo per farsi ascoltare su questi temi che riguardano tutti noi è mostrare le foto-calamita di Belen. Anche se non c’entrano niente. Parla dell’Italia dove si scende in piazza entusiasti per squadre di calcio corrotte. Neorealismo? No, questo è neosurrealismo. Ma per fortuna sono in molti che si chiedono se vi sia un fondo da toccare, e quale sia il limite.

Il concetto di limite è davvero affascinante. Penso alle mani della  giovane pianista cinese Yuja Wang, e in particolare alla sua interpretazione del volo del calabrone di Rimskij-Korsakov, una performance che pare aldilà delle possibilità umane per precisione e velocità. Penso all’avventura dell’atleta americano di origine sudanese Lopez Lomong, che la settimana scorsa ha contato male i giri dei cinquemila metri e ha staccato al penultimo anziché all’ultimo. Sicché arrivato stremato, per primo, al traguardo, ha dovuto ricominciare a correre a perdifiato altri 400 metri, incalzato dai concorrenti, e ha rivinto, abbassando clamorosamente il record mondiale. Dunque il limite, il suo limite, si poteva oltrepassare.

Ai ragazzi del Campus universitario di Lucca racconto di come gli Sherpa nepalesi, prima del turismo, considerassero sacre e inviolabili le vette. Il limite delle scalate era ben tracciato. Nel corso dell’ultima edizione del filmfestival di Trento assisto a un breve filmato intitolato Cold in cui una cordata di inconsapevoli sale sul Gasherbrum, nel Karakorum pakistano. Il loro leitmotiv è: “Che cosa ci faccio qui?” (con interiezione volgare, che ometto). Arrivati in vetta uno si piega e vomita (tanta fatica per andare a vomitare su una montagna sacra),  mentre l’altro dice: “Presto, via, andiamocene di qui”. Fine del documentario.

E allora non sembri pellegrino interrogarsi sul delirio dell’uomo che ostinatamente vuole piegare la natura anziché considerarla in alleanza, cosa che ci ha già portati oltre il limite: ai cambiamenti climatici, alla perdita di biodiversità, all’impoverimento dei paesaggi naturali e della mente. Siamo sette miliardi. Le previsioni indicano che nel 2030 gli esseri umani sulla Terra saranno nove miliardi. O le risorse esistenti vengono gestite con attenzione e ridistribuite equamente, o sarà la guerra. In realtà la guerra è già in corso, per il petrolio, per il gas, per l’acqua, sia pure in silenzio e a bassa intensità. Guerra per la terra come spazio vitale, considerato che la superficie coltivabile per sfamare nove miliardi di persone richiederebbe una politica e un’autorità morale mondiale che oggi non ci sono.

Come sempre la fantascienza ci aiuta a ragionare sui nostri limiti e  sul nostro possibile futuro. Hunger Games, è un film americano tratto da un romanzo scritto da Suzanne Collins in stile videogioco, distribuito in questi giorni nelle sale cinematografiche del vecchio continente. E’ una storia di competizione senza esclusione di colpi tra giovani affamati. Li costringe a combattere tra loro un governo autoritario che esige tale sacrificio. E loro si ammazzano a vicenda, più o meno eroicamente, senza pensare a una rivolta contro il sistema, senza fare una rivoluzione. Ahinoi. Ora neppure la fantascienza, con i suoi scenari dark e le usuali utopie negative, ci fa sperare in un riscatto. Allora sì, forse resta soltanto l’inganno. Avanti signore e signori che stasera c’è da divertirsi, gossip, calcio, Belen e gare di chef in tivù. Per poi servire, a tradimento, un discorso quasi clandestino su quelli che non ce la fanno più.