l'Adige, 18 dicembre 2020
Sciare è entusiasmante. Chiusi gli impianti, finita la pacchia? Neanche per sogno. In questi giorni il boom del fuoripista e di altre attività all’aria aperta, ma “sganciate”, è stata una sorpresa che fa volare col pensiero ai tempi e ai luoghi di una volta. All'epoca delle gambe in spalla.
In Trentino, pochi non l'hanno fatto. Ci siamo divertiti come i pazzi, siamo caduti felici con la faccia nelle neve (meno contenti quelli finiti al pronto soccorso). Ci siamo innamorati sulle piste, e piantati in neve fresca. Da ragazzi, c'era chi partiva a piedi alle cinque del mattino, chi prendeva la corriera, chi saliva perfino con la Vespa, gli sci legati in qualche modo alla sella. Stregati non soltanto dal brivido della velocità, ma anche dalla grande metafora dello sci, la ricerca di un equilibrio dinamico, scivolando sulla vita.Poi sono arrivati gli anni della folla, delle giacche a vento alla moda, delle canzonette gracchiate dagli altoparlanti sui tralicci dello skilift. Di più, sempre di più. Abbonamenti cari come biglietti della Scala di Milano. Impianti, caroselli, raccordi, passerelle, cannoni, ristoranti in quota, baracchini della grappa a metà pista, tornelli elettronici, rifugi con le ballerine brasiliane. Un modello di sviluppo voluto o sfuggito di mano?Dunque nei primi anni del Duemila alla Trento School of Management discutevamo sul futuro della montagna: immaginavamo un turismo invernale più sostenibile, flussi e strutture meno inquinanti, un'ospitalità alpina più sincera. Visioni della montagna che comportavano l'ascolto di tutte le parti, tavoli di concertazione, comunicazione e pratiche diverse. Quelle idee implicavano anche riflessioni sul significato dell'appartenenza, anagrafica o adottiva, al mondo della montagna. Che cosa vuol dire essere del posto, amare una località, gestire un servizio su quel bene comune che è il territorio. Negoziare ragionevoli limiti. Sentire la responsabilità della bellezza. Perché l'offerta di una destinazione turistica non è come quella di una qualsiasi merce; oltre al valore economico di ciò che viene offerto si basa sul rispetto, su una complicità che genera reciproca soddisfazione.
Ma quanta resistenza al cambiamento, sul territorio. Perché i "decisori" sembravano parlare con lingua biforcuta, come dicono gli indiani: tanti proclami sulla qualità del turismo, ma poi gli investimenti sulla quantità. Più gente, più strutture, più soldi. Fine del discorso. Il grande ripensamento non ha attecchito perché è prevalso l'approccio industriale, con lo sbandieramento di fatturati (e sovvenzioni) da capogiro. Il linguaggio dei numeri che non lascia possibilità di replica, anche se diversi costi, intanto, venivano ignorati. Costi sociali e ambientali. Vette meccanizzate, abetaie scalpate, risorse idriche saccheggiate, problemi di parcheggio, ressa davanti agli impianti, cibo spazzatura, sculettate in tutine modaiole, e un totale disinteresse per la vita dei residenti. Con reciproci rapporti d'uso, a scapito dell'ambiente. Quanto alla ricettività alberghiera, è rimasta sempre più legata dal cordone ombelicale alle funivie, un cordone che con gli anni è diventato un cappio.
Quest'anno, giocoforza, siamo passati dal cosiddetto overtourism all'undertourism, per dirla in dialetto trentino dal masa al miga. Tanta neve e impianti fermi. Ma le cronache di questi giorni registrano una tendenza a trovare altri modi. Non soltanto scialpinismo, fondo e snowboard. La cosa curiosa è che si tratta di alternative nate dal basso, senza tanti marketing e management. Iniziative spontanee da parte di escursionisti che nonostante la chiusura degli impianti vanno sulla neve. Salgono con gli sci in spalla, battono pistarelle a scaletta (come facevamo da ragazzini), tirano la slitta, surfano in neve fresca, ciaspolano in allegria, fanno pupazzi. Tutte persone per le quali lo sci non è soltanto la giostra, su e giù. Certo salire in funivia e poi scendere sul bianco tappeto spianato la sera prima dal gatto delle nevi è meno faticoso. Certo i numeri non sono quelli di un turismo invernale industrializzato. Certo i ricavi economici non saranno quelli degli anni scorsi. Ma non per questo i trentini dovranno tornare a imbarcarsi sulle navi per il Sudamerica, in cerca di fortuna. Perlomeno, non solo per colpa degli impianti chiusi fino alla Befana, giacché tutta l'economia italiana, a forza di misure restrittive, rischia il collasso, ahinoi. Toccherà cambiare qualcosa, ripensare l'ospitalità, reinventarsi. Da una parte recuperando lo spirito del passato, dall'altra aperti al futuro. Cioè attenti alla qualità del nostro patrimonio ambientale e ai rapporti umani.