Storia (e antropologia) del camminare
(...) A me piace camminare perché è lento, e sospetto che la mente,
come i piedi, possa lavorare alla velocità di circa tre miglia all'ora.
Se così fosse, allora la vita moderna si muove più rapidamente della
velocità del pensiero, o della riflessione.
Il camminare riguarda
l'essere all'aperto, in un luogo pubblico, e anche nelle città più
antiche lo spazio pubblico è abbandonato ed eroso, eclissato dalle
tecnologie e dai servizi che non ci chiedono di uscire di casa, e in
molti luoghi è oscurato dalla paura (i luoghi sconosciuti incutono
sempre più timore di quelli noti, così che, meno si vaga per la grande
città , più essa ci appare allarmante, e là dove vi sono meno passanti,
le vie diventano effettivamente più solitarie e pericolose). Intanto,
in molte località recenti, lo spazio pubblico non è nemmeno
programmato: quello che un tempo era spazio pubblico ora è destinato a
dare accoglienza e protezione alle automobili, i centri commerciali
sostituiscono le vie principali, le strade non hanno marciapiedi; negli
edifici si entra dal garage; i municipi non hanno una piazza; e ovunque
muri, barriere, cancelli. La paura ha generato uno stile di
architettura e di disegno urbano, specialmente nella California
meridionale, dove essere un pedone in molte ripartizioni e "comunità "
cintate vuol dire essere una persona sospetta. Contemporaneamente, il
terreno rurale e le periferie un tempo invitanti delle piccole città
sono stati inghiottiti da lottizzazioni destinate ai pendolari
dell'automobile o altrimenti sequestrati. In alcuni luoghi non è più
possibile uscire in pubblico, una crisi sia delle epifanie private del
passante solitario, sia delle funzioni democratiche dello spazio
pubblico. Era a questa frammentazione di vite e di paesaggi che
resistevamo tempo fa negli spazi dilatati del deserto che, per
l'occasione, diventavano pubblici come piazze urbane. (...)
Se c'è
una storia del camminare, allora deve anche arrivare al punto dove la
strada si disintegra, al luogo dove non esiste spazio pubblico e il
paesaggio viene pavimentato, il tempo libero si accorcia ed è
schiacciato dal peso dell'ansia che produce, i corpi non vivono nel
mondo, ma solo in un interno di auto e di edifici, e un'apoteosi di
velocità fa apparire quei corpi anacronistici o deboli. In questo
contesto, camminare è una deviazione sovversiva, è la strada panoramica
che attraversa un paesaggio semiabbandonato di idee e di esperienze.
(...)
Camminare è una delle costellazioni del cielo stellato della
cultura umana, una costellazione formata da tre stelle: il corpo, la
fantasia e il mondo aperto, e sebbene ciascuna di esse abbia
un'esistenza indipendente, sono le linee tracciate tra di esse -
tracciate dall'atto del camminare con scopi culturali - a farne una
costellazione. Le costellazioni non sono fenomeni naturali, ma
imposizioni culturali; le linee tracciate tra le stelle sono come
sentieri consumati dall'immaginazione di coloro che li hanno calcati in
precedenza. La costellazione chiamata "camminare" ha una storia, la
storia percorsa da tutti quei poeti e quei filosofi e quei
rivoluzionari, da pedoni distratti, da passeggiatrici, da pellegrini,
turisti, escursionisti, alpinisti, ma il suo futuro dipende dal fatto
che quei sentieri di collegamento vengano percorsi ancora.
Passi tratti dal testo:
Storia del camminare, Rebecca Solnit, Mondadori 2002