Airone Mare maggio 1989
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PROLOGO
Mena-sofy, "orecchie rosse", è l'appellativo qui riservato ai bianchi. Le orecchie sono le prime a scottarsi sotto il sole del Madagascar. Orecchie-rosse salta dalla piroga sulla spiaggia candida. Due marinai vezo, Solo e Fazo, lo accompagnano subito dall' hazomanga, il patriarca del villaggio. L'anziano pescatore ascolta tramite un interprete l'insolito desiderio del mena-sofy: farsi vezo, seppure per sole ventiquattr'ore. La risata inizia con un lungo "Eh", e termina con "Eka". Che, in lingua malgascia, vuol dire "sì". Da questo istante, orologio alla mano, Orecchie-rosse pescherà, mangerà, danzerà, dormirà con i vezo. Conosciuti come straordinari navigatori della costa sudovest dell'isola, questi seminomadi del canale del Mozambico discendono da una mitica sirena nera.
Ore 0.00
Il nostro primo accampamento nomade dista una mezza giornata di navigazione dal villaggio base. È mezzanotte, ma dalla boscaglia a ridosso della spiaggia giungono tonfi simili a colpi d'ascia. Solo e Fazo hanno smontato la grande vela quadrata della piroga, normalmente tenuta da quattro scotte, e l'hanno trasformata in tenda. Le pagaie, piantate nella sabbia, fungono da supporti. La luna piena esercita un'attrazione potente sull'acqua tiepida del canale del Mozambico. Tira a sé tutto quello che può. Anche il sangue che scorre nelle membra. Orecchie-rosse non dorme. La tenda è bagnata di rugiada e la notte è pervasa da un inspiegabile crepitio. Il mare si è ritirato per centinaia di metri, come un lenzuolo, scoprendo un ribollente materasso di fango. Il rumore della sabbia che brulica e respira pare causato da un'infinitesimale pioggerella d'astri.
Ore 1.00
Ma quando dormono i vezo? Un gruppo di ragazzi si avvicina al braciere del nostro accampamento. Sono pescatori anche loro. Portano una enorme rete, avvolta a matassa. Uno di essi, un giovane vezo dai muscoli di gomma nera, ostenta un caschetto di ricci biondi e rigidi come fusilli. A Tuléar, il capoluogo regionale, i veri vezo si riconoscono proprio per l'effetto decolorante che la salsedine ha sulle loro capigliature. Solo, già nonno a 36 anni, dirà poi di aver vegliato tutta la notte sull'equipaggiamento della piroga: il giovane aitante è un noto ladruncolo. Fazo, il nostromo d'animo semplice e gentile, si è dileguato.
Ore 2.00
Le zanzare infuriano. La marea comincia a crescere. Dalla riva, i giovani pescatori stringono il semicerchio della rete, scandendo una nenia. Tra le maglie guizzano, argentei, diversi mugilidi e carangidi. Un calamaro si dibatte tra una miriade di alici. I pesci più grossi verranno salati. Un villaggio vezo di 300 abitanti produce ben due tonnellate di pesce salato alla settimana.
Ore 3.00
Ecco Fazo che ritorna, un po' alla chetichella. Incomprensibile battibecco tra lui e Solo. Fazo ha un piccolo talismano di legno legato al collo. Solo tracanna sorsate di rum per scaldarsi, dice, e prepara già la colazione. Mentre sorseggiamo il caffè, in questa notte che sembra non finire mai, Solo racconta di quella volta che incontrò la sirena, nella baia di Fajnamoka. Quella sera di vent'anni fa gli amici lo avevano sconsigliato di partire così tardi, e senza timoniere. Ma lui era giovane, ardito e testardo. Fu proprio nel luogo rinomato per le mostruose apparizioni (piovre giganti, isole semoventi, mostri marini) che lo colse la bonaccia, sgonfiandogli la vela. Dall'acqua, nera e calma come petrolio, emerse allora Ampela Mananisa, la "donna con le squame", e si issò sul bilanciere della piroga. Solo quasi svenne dalla paura. Era una donna dai lunghi capelli neri, di carnagione scura, molto formosa, con l'addome e la coda di pesce. Sdraiato sul fondo dello scafo, Solo pregò i suoi antenati di lasciarlo in pace e gettò qualche moneta nell'acqua. Ampela Mananisa, sempre in silenzio, se ne andò, e il vento riprese a spirare.
Una leggenda molto diffusa vuole che il primo vezo, Bibiandrano (letteralmente "animale d'acqua"), sia figlio di un uomo di nome Tehibo e di una sirena, che questi portò al villaggio e prese in moglie. La donna acquatica però pose una condizione: nessuno avrebbe mai dovuto pronunciare la parola "squame". Da quell'unione nacquero tre figli, due maschi e una femmina. Ma un giorno la prima moglie di Tehibo, che era molto gelosa, pronunciò la parola tabù. Immediatamente, Ampela Mananisa prese la via del mare, assieme a un figlio e a una figlia. Lasciò tuttavia al villaggio il primogenito, Bibiandrano appunto, con una preghiera: che tutti i vezo defunti venissero sepolti lungo il mare. In modo che lei potesse andarli a trovare, di notte, a suo piacimento.
Ore 4.00
È ancora buio. I due marinai smontano le tende e armano la laka. La laka è la caratteristica piroga a bilanciere dei vezo, di provenienza polinesiana. Lo scafo è intagliato in un unico tronco, molto leggero; l'albero, purtroppo sempre più raro, in malgascio si chiama farafatse e per i botanici è la Giviota madagascariensis. Il bilanciere (fanare), situato sulla destra, è lungo quasi quanto lo scafo, ed è tenuto in posizione parallela da due traverse (varona), una di prua, l'altra di poppa. Le traverse si prolungano sulla sinistra, quella di prua molto più lunga dell'altra, e sono collegate da un sottile bastone obliquo, alto un metro sopra il pelo dell'acqua, che funge da controbilanciere (tinga). Gli alberi sono due, di cui uno mobile. Tutti i pezzi sono tenuti assieme a incastro, o con legami in fibra intrecciata di baobab. Il vento è debole. Perciò Solo spiega la vela in posizione laimpanihy, cioè "a pipistrello". È l'apertura massima. Con il vento tsiuk-atimo, di sudovest, e la vela laimpanihy, una laka può viaggiare tranquillamente sul filo dei diciotto nodi. Ma, nonostante il bilanciere, per impedire che la piroga si rovesci quando tira aria di ciclone, i vezo compiono acrobazie che lasciano a bocca aperta.
Ore 5.00
L'aurora. Solo osserva i cirri gialli all'orizzonte, sfilacciati dal vento. Legge le loro forme, le interpreta e agisce di conseguenza. Per i vezo, il vento è più del motore delle loro laka. Il vento ha un'intenzione, ha un cuore, ha premure da amico e anche invidie da placare. Il reef segue tutta la costa popolata dai vezo, ma non è sempre parallelo al litorale. Costituisce, piuttosto, una serie di corridoi e di lagune, che partono dalla spiaggia a spina di pesce. La barriera muore al largo, per rinascere, poco più oltre, a riva. La conoscenza di questo pericoloso labirinto corallino costituisce il patrimonio culturale, se non il monopolio, dei seminomadi della etnia vezo.
Neppure i pirati, che affollarono queste baie tra il Seicento e il Settecento, assaltando le navi europee cariche di spezie e di tessuti orientali, raggiunsero una simile padronanza dell'ecosistema costiero. Se ne accorse, al principio del secolo scorso, anche il grande re malgascio Andrianampoinimerina, che vide il suo esercito beffato e decimato, prima che dagli arponi degli irriducibili vezo, dalla loro tattica, che sfruttava le maree. Mettendo in atto un'autentica guerriglia marinara, poche centinaia di piroghieri riuscirono a liquidare le attrezzatissime golette reali, cariche di soldati. L'esercito di conquista fu infatti attirato, a più riprese, verso finti passaggi del reef. Su barriere coralline taglienti come grattugie. Su bassifondi sabbiosi che in pochi minuti diventavano abissi.
Ore 6.00
Ormai appoggiata al mare, la luna è colpita dai primi raggi di sole, e si scioglie come un budino rosa, senza più forma, nell'orizzonte blu. Il pesante bilanciere incatramato, lungo circa otto metri, beccheggia pesantemente sulla dritta. È un'anima nera che ci segue ovunque, e che dà conforto. È il garante della nostra stabilità. All'improvviso, però, si ode un rumore secco. Una grossa ondata ha fatto saltare il cuneo di vetro che assicura l'incastro dell'estremità della traversa di poppa al supporto a forma di bottiglia rovesciata. Solo si precipita a poppa, camminando in equilibrio sul sottile controbilanciere. Lancia un cappio al piolo a forma di bottiglia, che salda il bilanciere alla traversa, e fissa il tutto appoggiando la cima alla panca. Perché è questo che fa Solo; non annoda, ma appoggia il cordame che, come per magia, si fissa da sé.
Ma sopraggiunge un secondo imprevisto. Nel tentativo di tendere ancora di più la cima di sicurezza (sarebbe un bel guaio perdere il bilanciere), Solo spezza la corda e cade in acqua, di schiena. Il capitano a mare! Più veloce del vento, Solo è di nuovo a bordo e ride di gusto con Fazo.
Ore 7.00
Ci avviciniamo rapidamente alla passe, lo stretto braccio di mare che consente di attraversare la barriera corallina. Questi passaggi, da Tuléar fino a Morombé, cioè per 250 chilometri di costa, si contano sulle dita di una mano. Non è facile infilarli. E mancarli può diventare un dramma. C'è tensione sul viso degli amici vezo, anche perché il mare è abbastanza grosso. Finalmente l'acqua si apre per la nostra laka, lasciandoci uscire, attraverso una valle liquida, tra due montagne spumeggianti. A destra e a sinistra le onde si infrangono paurosamente sul banco a fior d'acqua, invisibile e insidioso. È un'esperienza biblica.
Altre piroghe ci hanno seguito, per dare inizio alla manovra di accerchiamento del pesce. La rete è di fibra di corteccia del baobab rinala, una delle sette specie malgasce. I galleggianti sono di legno. I piombi, grosse conchiglie forate e allineate. Lavorano tutti, anziani, donne, adolescenti.
Ore 8.00
Fazo propone di rientrare in laguna, attraverso la passe, per pescare qualche aragosta. Solo si prende gioco di lui, insinuando che, in realtà, Fazo desidera espletare i suoi bisogni corporali sulla terraferma. Il che è vero. Ciò non toglie che, ricomparso Fazo, in mezz'ora di immersioni i due vezo, armati di arponi, catturino tre aragoste e un grosso pesce-pappagallo.
Ore 9.00
Fazo sta seduto a poppa, manovrando la pagaia che funge da timone. Solo, a prua, prepara la mayonnaise con olio di palma e uova d'anatra. Ma non gli riesce, e la cosa lo fa infuriare. Per due volte rovescia il liquido giallo nell'acqua di giada. Al terzo tentativo, a suon di forchettate, la salsa si rassoda e Solo trionfa. Fa un caldo tremendo. La schiena nerissima del nostro cuoco-capitano è talmente sudata che il sole, battendovi sopra, crea un riflesso candido. Orecchie-rosse è invitato a osservare un promontorio del litorale: mai passarvi davanti con carne di maiale a bordo. È tabù. Regna il buonumore. Solo afferra un pomodoro e, canticchiando, se lo succhia. Fazo gli dice che cantare mentre si mangia fa allungare i denti.
Ore 10.00
Tornando al villaggio, incrociamo le laka di altri vezo, che partono per la pesca al tonno, a traina. Da un'imbarcazione proviene la dolce melodia di una chitarra, pizzicata all'ombra della vela. A pochi metri dalla riva, i bambini giocano con dei modellini di piroga che riproducono perfettamente le imbarcazioni degli adulti. Imparano così, fin dalla più tenera età, a destreggiarsi con vela, corde e bilanciere. A capire il vento e a solcare i flutti. Rispetto al mezzo che garantirà la loro sopravvivenza per tutta la vita, i piccoli vezo sono grandi come giganti.
Ore 11.00
Le donne e gli anziani preparano i pesci per l'essiccazione. Un bimbo ha una crisi di asma. Quasi tutti i piccoli hanno anche la pancia gonfia: l'alimentazione è povera e poco varia. Mahazatse, un giovane vezo, propone un'escursione nella brousse, dietro il villaggio di Bevato, per procurarsi dell'acqua dolce. La vegetazione è stupefacente. Ci sono gli "alberi piovra" irti di spine, il sacro lasa che si inonda di foglioline verdi e grasse a cascatella, l'arbusto che fornisce il collirio, le matasse di uncini vegetali che imprigionano topi e uccelli. Ma più di ogni altra pianta, impressionano i baobab, commoventi giganti della brousse dall'enorme fusto sormontato da un ciuffo di fronde.
Ore 12.00
Il discorso cade sui mitici Mikea, gli uomini "selvaggi" dell'entroterra. Medici, stregoni, illusionisti. Veramente, sul loro conto i vezo narrano cose incredibili. Per esempio che essi possono smaterializzarsi davanti ai vostri occhi, se soltanto alzate la voce. Con un crac, Solo torce il collo alle aragoste e ne getta via la metà anteriore. Ma, prima di gustarle, ci vuole "la parola". La parola è rituale, è importante e rischiosa, e non va interrotta. Il discorso formale è anzitutto di ringraziamento (per i doni o per l'ospitalità), quindi di scuse (per non essere all'altezza degli illustri presenti). La parola, dicono i vezo, è come il fuoco: può scaldare e può anche bruciare. Perciò chi sbaglia la parola paga i danni, come avesse perso una scommessa.
Ore 13.00
Bassa marea. Qualcuno sonnecchia all'ombra dei ripari di giunco. Qualcun altro parte per la raccolta dei ricci di mare. I bambini hanno catturato un vorontomany, l' "uccello piagnone". Effettivamente, il volatile si lamenta come un bebè. Il vorontomany fa il nido su un isolotto di fronte al villaggio di Ambatomilo, ed è considerato un portasfortuna. Quando viene acchiappato ma finisce arrosto fuori dal villaggio, per precauzione.
Ore 14.00
Tramestio attorno al randza-mpano, l'altare della testuggine, recentemente devastato dall'ultimo ciclone di primavera. La testuggine è l'animale più sacro ai vezo. Da essa dipendono le sorti di ogni battuta di pesca. La caccia alla testuggine va fatta con un arpone e una piroga speciali. L'animale è catturato al mattino, quando sale in superficie, per sonnecchiare nei primi raggi del sole. Tanto la sua uccisione che il suo smembramento sono ritualizzati. L'etnologo vezo Mansare Marikandia, incontrato a Tuléar, ha visto i pescatori passarsi di bocca in bocca il cuore della testuggine, davanti all'altare. Il sangue del rettile viene spalmato sulla prua della laka di chi per primo ha scagliato l'arpone. Più imbrattata è la piroga, maggiore è il prestigio del suo proprietario. L'altare è formato da un graticcio verticale di fronde, a ovest delle quali, verso il mare, giace un cumulo di gusci di testuggine. La sacra stratificazione è dominata da una testa di fano (di solito, la testuggine Chelonia mydas) che viene infilzata su un'apposita picca.Solo borbotta che non è stato affatto il ciclone a creare scompiglio, ma il membro di un diverso clan vezo, che ha profanato il randza-mpano gettandovi un sacchetto di "legnetti del malocchio". Ora bisogna spostare l'altare e riconsacrarlo.
Ore 15.00
I pescatori che tornano con le piroghe piene di calamari, si affrettano ad appenderli al sole, su appositi supporti, simili ad attaccapanni. Le laka vengono tirate in secca a forza di braccia. Un'imbarcazione viene rovesciata e calafatata con del bitume fumante, misto a olio di fegato di squalo.
Ore 16.00
Parte una piroga per Tuléar, con due uomini e due donne a bordo, carica di grosse conchiglie mena-vava ("bocca rossa") e di oloturie secche. Farà scalo a Manombo, dove lascerà anche del pesce salato, in cambio di qualche sacco di riso. Orecchie-rosse si aggira tra le palizzate di mangrovia alla ricerca di una toilette. Ed è così che si imbatte, invece, nella casa degli dèi. Il medium Majnaboake è il padre di Fazo. La sacra dimora ha il tettuccio merlato e somiglia a un grazioso pollaio palafitticolo. Ospita Marshivola, uno spirito bambino che, naturalmente, ama giocare. Perciò, accanto agli oggetti di culto fa mostra di sé un bellissimo modellino, non di laka, ma addirittura di transatlantico. Il vecchio Majnaboake, quando è posseduto da Marshivola, salta, ride e piange proprio come un bambino capriccioso. Marshivola è uno dei numerosi vorombé, la casta di divinità marinare dei vezo. Il culto di possessione si chiama trumba ed è diffuso in tutto il Madagascar.
Ore 17.00
Majnaboake racconta di aver fatto un'alleanza di sangue, vent'anni fa, con un etnologo di nome Bernard Koechlin. Ma, dal giorno della sua partenza, non ne ha mai più avuto notizia. Perché non è più tornato, che sia morto? [NdR. Koechlin, ex-capitano di lungo corso, è vivo e vegeto. Abita a Parigi, dove insegna etnologia all'università. Sua è l'unica, esaustiva, monografia sui vezo: Les vezo du sud-ouest de Madagascar. Contribution à l'étude de l'éco-système des semi-nomades marins, Mouton, Paris 1975].
Ore 18.00
Con il palmo della mano, Solo schiaccia con forza spicchi d'aglio sulla pagaia, che fa da tavola e da tagliere. Prepara un calamaro ripieno di riso. Il sole tramonta, nelle capanne si accendono le prime candele di cera d'ape, e i bambini tendono agguati ai gechi e alle falene.
Ore 19.00
Cena. Gli uomini da una parte, le donne dall'altra. Sigarette, rum. La brezza calda porta il rantolo della risacca. Ricomincia l'inferno delle zanzare. Qualcuno tira fuori il pettine. I vezo si ostinano a pettinarsi i corti capelli crespi, scoloriti dal sale. Dopo l'operazione si guardano in una scheggia di specchio, con soddisfazione.
Ore 20.00
Un arpeggio nel buio fa eco a un accordo uscito da una capanna. Un terzo tocco di chitarra, più lontano, ed è subito concerto. Gli strumenti sono di legno, completamente fatti a mano, e montano segmenti di lenza come corde. La chitarra è suonata con notevole senso ritmico, usando un listello di giunco come plettro. Finita la corsa sulle quattro o cinque corde, il plettro vegetale batte sulla cassa armonica, aggiungendo la percussione all'armonia. La musica è davvero irresistibile.
Ore 21.00
Le bambine sono le prime a cedere. Si alzano come fiammelle nere dalla sabbia, per scuotere violentemente le spalle e il bacino, con i gomiti piegati a novanta gradi. Poi si lasciano ricadere, ridendo. È la danza caratteristica del trumba di nome Harykely, che però non sempre si manifesta con la vera e propria trance di possessione. A differenza delle bambine, le ragazze sono inibite dalla presenza dei fratelli. Ma scalpitano, e non riescono a trattenere il fremito delle anche. Solo danza pure lui come un orso ubriaco, con gli occhi chiusi. Ma ogni tanto allunga le mani, non proprio alla cieca, provocando fughe e schiamazzi. Fazo, naturalmente, è sparito.
Ore 22.00
La danza ha trascinato quasi tutto il villaggio attorno al fuoco. Soltanto un'ombra si muove, solitaria, al lume di candela dentro una capanna. È la nonna di Mahazatse, che danza per conto suo. C'è eccitazione nell'aria. I ragazzi e le ragazze si inseguono a piedi nudi, nella sabbia fresca che ha il colore della luna. Giù alla spiaggia un gruppo di pescatori approfitta della bassa marea per andare a ritirare le nasse. Di giorno i vezo hanno piantato lunghi pali fronzuti sul fondale corallino, che ora servono come punti di riferimento.
Ore 23.00
Sarebbe il momento del sakafom-vahiny, il "pasto del visitatore". Metafora, un po' cannibalesca, che designa l'antico obbligo dell'ospitalità sessuale, offerta al viaggiatore. Negarla, sarebbe disonorevole. Tuttavia, i genitori delle fanciulle disponibili devono fingere di non sapere nulla, e andarsene a dormire. Sulla spiaggia, accanto alla nostra vela-tenda, rimangono alcune ragazze molto giovani. Solo si butta. Fazo è imboscato da un pezzo. Le ragazze aspettano ancora un po'. Poi finiscono per stufarsi, e se ne vanno.
Ore 24.00
Orecchie-rosse scrive e scrive, nell'insopportabile luce della luna.