Ticino7, 15 settembre 2017
Ho un amico che si è appena comprato una tecno-pedana per podismo indoor, si presenta come “il tapis roulant intelligente”. Ha un computer di bordo con cui si possono impostare le funzioni relative ai diversi territori “attraversati”, come salite e tratti accidentati. L’aggeggio ovviamente sta fermo. Il mio amico, invece, nonostante viva in una cittadina alpina e non a Manhattan, corre sul nastro in salotto davanti al monitor ad altezza occhi. Gli ho chiesto: ma perché non vai a correre all’aperto? Mi ha guardato come si guardano quelli che non capiranno mai.
Itinerari immaginari se ne sono sempre fatti: viaggi nell’aldilà, psichedelici, onirici. Anche molti viaggi letterari e fantastici sono spostamenti virtuali, basti pensare ai viaggi di Gulliver, alle avventure del Barone di Münchhausen o ai libri di Emilio Salgari. Il quale ambientò le sue storie in Malesia, ma non si mosse mai dall’Italia. Da quando c’è Internet, però, è tutta un’altra cosa, perché è possibile “navigare” da fermi. I più affamati di esperienze digitali possono anche immergersi in scenari fantastici con “caschi succhiafaccia” (head mounted display) collegandosi a speciali computer, per partire senza andare.
Ma sono viaggi? No, non lo sono. Diciamo che sono metafore, simulazioni. Nella maggior parte dei casi, poi, sono visioni, nel senso che si viaggia guardando panorami, con il senso della vista. Altro è esperire ed imparare, erfahren come dicono i tedeschi, e nel verbo erfahren (apprendere, passando attraverso) c’è dentro un Fahrt, un viaggio vero. Il viaggio è una dislocazione scomodante che, quando va bene, produce sorprese, imprevisti, smottamenti interiori. Pantofole + computer non è = viaggio. I viaggi virtuali, pur essendo a modo loro esperienze, sono surrogati. Il turismo è rottura della routine quotidiana, stare davanti allo schermo non rompe un bel niente. Viaggiare è esporsi all’insolito, anima e corpo. Il corpo che desidera, che soffre, che gode, che reclama, che sente con tutti i sensi. La prima boccata d’aria umida e torrida quando si apre il portellone dell’aereo atterrato ai tropici. Sapori inusitati, lingue sconosciute, momenti toccanti (le perquisizioni alle frontiere!).
Certo uno può dire di aver fatto virtualmente il giro del mondo con Google Street View, il software per vedere le foto dei posti senza andarci (vedi il pezzo a lato). Ma gli incontri? A Google Street View non interessano le persone, e quando la fotocamera che mappa il territorio si imbatte in un essere umano, la privacy impone di pixelarne il volto. Detto tutto.
IL CASO JACQUI KENNY
Sul fronte dei viaggi il “caso” dell’estate 2017 è Jacqui Kenny, una donna neozelandese di 43 anni, emigrata a Londra, che soffre di agorafobia. Sin da ragazzina Jacqui sognava di fare la reporter per il National Geographic, ma le cose sono andate diversamente: ogni situazione nuova per lei è fonte di stress, Jacqui ha paura degli spazi aperti, di andare al cinema, di prendere l’autobus, di camminare in strada. E così per viaggiare, ha usato il computer, con il programma di Google Street View. In un anno ha navigato moltissimo, visitando un migliaio di città, ma lo ha fatto appunto senza muoversi dalla sedia, davanti al monitor. Le sue destinazioni preferite, dice, sono il Perù, il Cile, la Mongolia e il Senegal, perché ama le condizioni climatiche estreme.
Google Street View è una funzione di Google Maps e Google Earth che fornisce viste panoramiche a 360° gradi in orizzontale e a 160º in verticale lungo le strade e permette agli utenti di vedere parti di varie città del mondo a livello del terreno. Per la realizzazione delle foto Google Street View si serve di apposite macchine fotografiche collocate sul tetto di automobili, denominate Google Cars. Jacqui Kenny, che si definisce “Agoraphobic Traveller”, sul suo account Instagram ha postato 27 mila fotografie di luoghi dove non è mai stata.