Parliamo di antropologia, intelligenza artificiale, automazione, fantascienza,
Westworld. Dove tutto è concesso è una serie televisiva statunitense prodotta nel 2016, basata sull’omonimo film scritto e diretto da Michael Crichton, nel 1973 (titolo italiano Il mondo dei robot)[1]. Il set di Westworld è un parco a tema costruito in stile vecchio West, con saloon, scuderie, bordelli e duelli, nel solco della classica tradizione cinematografica western. Il film mostra sia la front region, cioè il gigantesco teatro all’aria aperta (circa 1.300 chilometri quadrati) che i turisti visitano quotidianamente, sia la back region,[2] cioè il centro direzionale e i laboratori tecnici gestiti da un’impresa commerciale, la corporation di nome Delos. I visitatori, che nella serie televisiva vengono chiamati guests, ospiti, sono umani, mentre i locali detti residents sono automi umanoidi, perfettamente antropomorfi, programmati per stare nei ruoli della rievocazione. Sia i turisti sia gli androidi sono in costume d’epoca di fine Ottocento. L’idea è che i residenti siano a totale disposizione dei facoltosi visitatori (mille dollari al giorno nel 1973, 40.000 dollari al giorno nella serie televisiva del 2016). Vediamo così spietati turisti thrill seekers intraprendere scorribande e abbandonarsi ad ogni eccesso, secondo lo stereotipo del selvaggio West. Omicidi, stupri e innumerevoli altri abusi non vengono puniti poiché fanno parte dell’esperienza immersiva e sono optional gratuiti nel pacchetto. Gli androidi danneggiati vengono immediatamente sostituiti, riparati e all’occorrenza riprogrammati.
Il plot ha uno sviluppo rivoluzionario: a poco a poco, inopinatamente, i residenti di Westworld recuperano dolorose memorie e acquistano coscienza, iniziano a ribellarsi ai soprusi e infine organizzano un assalto alla Delos. Una seconda stagione, con il seguito della storia, è attesa per il 2018. L’ispirazione, quasi un remake, come accennato proviene da un’idea di Michael Crichton, che volle l’attore Yul Brynner, reduce dal successo del film I magnifici sette (1960) nei panni dell’androide calvo in camicia nera, chiamato The Man in Black. Il film Westworld di Crichton, da molti considerato un cult movie, è precursore del tema della macchina che si ribella all'uomo; vent’anni dopo, nei primi anni ‘90, saranno i dinosauri di Jurassic Park, sempre ideati da Michael Crichton, ad andare drammaticamente fuori controllo[3].
Nel film del 1973 Westworld era tuttavia articolato in tre sezioni: Westernlandia (così tradotto in italiano), Medioevonia e Romamunda, con tematizzazioni rispettivamente del Far West, del Medioevo e della antica Roma. Eloquente la scena della presentazione e dell’intervista di un visitatore, fresco d’esperienza: “Se qualcuno non sa cosa sia Delos, be’, come sempre diciamo Delos è la vacanza del Duemila, oggi. A Delos voi potete scegliere la vacanza che voi volete, nel mondo medievale, antico romano o nel mondo Western. Ma parliamo con qualcuno che c’è stato.
Naturalmente altre messe in scena della Frontiera hanno nutrito l’immaginario internazionale, generando flussi turistici [4]. Per esempio la Mini Hollywood, che si trova nel deserto andaluso di Tabernas a 25 chilometri da Almeria, in Spagna, fu realizzata nel 1965 come set per il film Per qualche dollaro in più, e fu poi utilizzata per ambientare altri film del genere spaghetti western, a firma Sergio Leone, come Il buono, il brutto e il cattivo (1966). A tutt’oggi una delle attrazioni turistiche principali di questo parco a tema è Western Town, dove i visitatori possono assistere a show con sparatorie, rodei e danze Can can[5].
Il Western village giapponese, invece, conosciuto inizialmente come Kinugawa Ranch, nella prefettura di Tochigi, venne costruito a partire dal 1973 e versa ormai in progressivo stato di degrado dall’anno della chiusura, avvenuta nel 2007. Prima di cadere in rovina attirava principalmente turismo interno, vale a dire giapponesi curiosi di aggirarsi tra, locanda, barbiere e prigione dello sceriffo, all’insegna del vivi una volta il West. Nel 1995 vi fu aggiunta una replica dei volti in granito del famoso complesso scultoreo di Mount Rushmore nel Dakota del Sud, per calare i visitatori ancora più nell'atmosfera della vecchia America. Il Western village giapponese oggi è divenuto un sito di archeologia industriale, dove si pratica il cosiddetto turismo haikyo: avventurosa esplorazione di strutture architettoniche abbandonate, soprattutto da parte di fotografi interessati a una forma di turismo che potremmo definire ruderista[6].
In Italia dal 1995 è attivo il parco Cowboyland di Voghera, in provincia di Pavia, su un’area di 50 mila metri quadrati. Il parco si presenta con queste parole: “Welcome to Cowboyland, l’unico parco a tema western in Italia. Siete pronti per scoprire il vecchio selvaggio west? Cowboyland è un luogo ideale per la famiglia dove trascorrere un intero giorno tra le divertenti attività dedicate soprattutto ai più piccoli”[7].
La rievocazione della Frontiera nella serie televisiva “Westworld” del 2016, ha finalità ben diverse dall’intrattenimento per i più piccini. Si potrebbe anzi dire che si tratta di un luogo, beninteso virtuale, meglio ancora una location, di programmatica rieducazione alla sregolatezza, all’insegna del no limits. Scrive lo storico statunitense Mark Boonshoft “Il parco a tema di Westworld mi ha ricordato le esperienze di public history, e particolarmente con la storia vivente. Non perché “Westworld” sia uno spettacolo di public history, di rievocazione o ascrivibile ad altre analoghe categorie, ma perché rappresenta un dibattito da tempo aperto tra noi storici. La fantasia di Westworld riflette un’importante opposizione: lo studio della storia versus l’intrattenimento”[8].
Nella caricatura disegnata dal graphic novelist aretino Zerocalcare (pseudonimo di Michele Rech), l’ethos che anima il visitatore è sintetizzato così: “Vai Manlio, vai a tirare le noccioline al signore. Dài, qua puoi. Non è come allo zoo, o a teatro. Bravo appapà, qua fai come ti pare”[9]. Per rimanere nell’ambito del popolare, o del popolaresco, possiamo anche seguire Zerocalcare nella sua lettura critica di Westworld, piena di perplessità: “Siccome tutti stanno guardando Westworld – e ne sono perlopiù entusiasti – Wired mi ha chiesto di farci un fumetto. Quando scrivo tutti in realtà mi riferisco a una nicchia di disadattati con scarsa vita sociale, di cui faccio parte, convinta di essere rappresentativa del sentire comune. E’ sempre bene ricordare che nel mondo vero se dici “Westworld” la gente ti risponde così: “Ma che cazzo è Uessuò? Io guardo il campionato e Carlo Conti, grande professionista, nonostante che è necro”[10].
Rimane l’indiscutibile successo di share della serie televisiva.[11] Certo questo fantawest meta di vacanze trasgressive, evoca suggestivamente altri scenari: per diversi aspetti, vecchi film su ingegnerie genetiche e realtà fittizie come i film Total Recall, Blade runner e Truman show; per la tematica eversiva la più recente serie televisiva svedese Real Humans/Äkta människor, dove umanoidi chiamati hubot, dotati di porta Usb dietro il collo, finiscono per ribellarsi alla loro condizione sociale di subalternità, facendo la rivoluzione.[12]
Nel caso di Westworld il reenactment è partecipativo e mimetico. La messa in scena è creata per la fruizione turistica, ma i clienti sono apparentemente uguali ai residenti. E soprattutto questi ultimi non sono umani, ma come detto repliche perfette. Inoltre, un’abile sceneggiatura insinua dubbi sulla vera natura di alcuni protagonisti, anche appartenenti allo staff tecnico, per sconcertare lo spettatore portandolo al confine aleatorio tra umanità e post-umanità.
In effetti Westworld non è neppure “un’oscura odissea sull'alba della coscienza artificiale e sul futuro del peccato”, come vorrebbe la voce di Wikipedia, poiché la storia del risveglio della coscienza (e della sessualità, e delle emozioni) in esseri plasmati da parte di divinità, e in androidi creati dall’Uomo, è antica leggenda.[13] E’ dunque inevitabile entrare, seppur frettolosamente in questa sede, nel parallelo tra opposizioni: divinità/umano e umano/androide, dove i rapporti di potere e i relativi destini si manifestano in maniera analoga. Una latente sottotraccia filosofica, questa, che emerge spesso nei dialoghi a tema il “male di vivere” e la ricerca di identità tra i protagonisti. Così, per esempio, nel confronto tra i due turisti William e Logan:
- Questo luogo seduce tutti, prima o poi. Alla fine mi pregherai di restare perché questo posto è la risposta alla domanda che hai fatto a te stesso.
Quale domanda?
Chi sei davvero.
E ancora, per bocca dell’androide eroina della serie, Dolores (a destra in fig. 2), colei che sviluppa - nomen omen - avvisaglie di dolorosa autocoscienza: “A volte è come se ci fosse una voce che mi chiama e mi dice che c’è un posto per me. Un posto al di là di tutto questo”.
Il divertimentificio estremo di Westworld è una ideazione e soprattutto una narrazione del vecchio dottor Robert Ford (fig. 3), interpretato magistralmente da Anthony Hopkins. Questo personaggio faustiano, cinico e visionario, avrebbe creato la location adatta per tessere le sue trame filosofiche, più che per trarne profitto. A lui si deve l’idea provocatoria della completa disponibilità degli ospiti a soddisfare ogni capriccio dei visitatori, in un clima permissivo di totale arbitrio: crudeltà, sfizi perversi, violenze gratuite. A dimostrazione del fatto che se potessimo trasgredire e violare le norme della convivenza civile, senza controllo sociale e senza paura delle sanzioni, lo faremmo tutti volentieri e con grande soddisfazione. Esemplare, a questo proposito, è la scena in cui una coppia di turisti di mezza età – lui in giacca e panciotto lei in gonna lunga di mussolina - esulta dopo aver freddato a bruciapelo, a revolverate, una coppia di giovani cowboy:
Guarda là! (ridendo) l’ho colpito al collo, e ho beccato anche lei!
Guarda come si contorce.
Va’ a chiamare quel fotografo, voglio immortalare la scena!
D’accordo!
Robert Ford è il di(o)rettore creativo del team che lavora sul software che anima gli androidi, riprogrammandoli in seguito agli sviluppi più o meno prevedibili delle interazioni sul campo. Ford cerca continuamente di migliorarli e di renderli più realistici, aggiornandoli con ricordanze virtuali affinché assumano comportamenti verosimilmente umani. Tali memorie fittizie, così come le necessarie storyline, cioè le linee narrative della messa in scena, non sono altro che stringhe di programmi informatici, in continua evoluzione, caricati digitalmente nel sistema operativo dei residenti meccatronici. Westworld è dunque la narrazione televisiva di vacanze spericolate, a tratti simile a un videogame spara-spara che ha però l’ambizione filosofica[14] di metterci davanti alla nostra vera natura: occidere humanum est. Salvo, come si diceva, un imprevisto: dopo i reboot, alcuni androidi iniziano a comportarsi in modo strano, recuperando memoria dei loro profili che pure erano stati cancellati, aggirando il controllo degli umani, dubitando della realtà del loro mondo e infine assaltando la Delos.
Natura e “cultura” di questi peculiari residenti sfuggono alle logiche dei rapporti che solitamente intercorrono, al momento dell’incontro, tra individui appartenenti alla comunità ospitante e individui della comunità visitante. Interessi, conflitti e negoziazioni posti in atto sul territorio in questo caso sono giocati altrove. Laddove gli impatti possono essere inculturanti, disgreganti o stimolanti, laddove le dinamiche relazionali producono un confronto generativo di innovazione, a Westworld l’esito è invece prestabilito, in quanto eterodiretto: i residenti sono hardware a immagine e somiglianza di homo sapiens, che agisce in base ad applicazioni informatiche dedicate. Nelle premesse, la popolazione locale non ha una vita, non ha tradizioni, non ha un governo propri, è burattinesca. Il che dovrebbe spingere l’osservatore esterno, cioè noi telespettatori, a scavalcare l’aspetto etico, vale a dire la considerazione del riconoscimento dei giusti diritti: umani, territoriali e di autodeterminazione degli indigeni.
Il management della Delos dispone delle sorti della comunità di residenti con mansioni di regia, architettura del paesaggio, scenografia, gestione politica e amministrazione del territorio. Esemplare il dialogo tra un tecnico con casco antifortunistico giallo e il dottor Ford, durante un sopralluogo nel parco:
- Se vogliamo che il canyon arrivi fin qua questo villaggio va via. Possiamo distribuire la popolazione nelle fattorie dei dintorni, o “disattivarla”.
- No. Siamo stati distruttivi abbastanza, per oggi. Fermiamo il canyon appena fuori città.
Si potrebbe pertanto ipotizzare che la comunità locale non sia quella dei residenti nel parco a tema, ma quella nascosta ai visitatori, vale a dire l’équipe di tecnici che lavora nelle strutture annesse: laboratori di ricerca, officine biomeccaniche e clinica degli androidi. Ma sarebbe inutilmente cervellotico seguire poi nelle sue articolazioni questa interpretazione. Quanto alla problematica della autenticità e alla sua fruizione nel divertimentificio allestito dalla Delos, va ribadito che i turisti non mettono mai piede nella back region (lo faranno invece gli androidi in rivolta, rimanendone sconvolti), né cercano di smontare il gioco che consente loro di abusare di altre “persone” senza pagarne le conseguenze.
E’ invece interessante considerare in chiave antropologica proprio questo presupposto, che in ogni puntata della serie si ripresenta in maniera ossessiva: l’istanza di trasgressione da parte della clientela. Come riflette e domanda candidamente la bella Dolores: “Se è un posto tanto meraviglioso là fuori, perché non vedete l’ora di venire qui?”. Rincara la dose il fumettista Zerocalcare: “Se vai in vacanza per stuprare, ammazzare e torturare gente (cosciente, artificiale o meno) qualche domanda te la dovresti fa’”.[15]
Le risposte potrebbero arrivare, oltre che dal dottor Robert Ford (“Voi venite qui per dare un senso alla vostra vita”), da una nutrita saggistica sulle istanze di fuga. Il tema dell’evasione turistica coatta, più o meno impattante sulle destinazioni, oltre ad essere aneddotico è spesso trattato nella letteratura socioantropologica e nella fiction. Scrive, per esempio, Aldous Huxley: “La maggior parte degli uomini e delle donne conduce una vita, nella peggiore delle ipotesi così penosa, nella migliore così monotona, povera e limitata, che il desiderio di evadere, la smania di trascendere se stessi, sia pure per qualche momento, è, ed è stato sempre, uno dei principali bisogni dell’anima”.[16] Oppure Michel Houellebecq, che nel romanzo Piattaforma, di cui è protagonista un turista sessuale, scrive: “Appena hanno qualche giorno di libertà, gli abitanti dell’Europa occidentale si precipitano all’altro capo del mondo, attraversano in volo metà globo, si comportano letteralmente come evasi dalla galera”.[17]
Avvertenza per i cultori di scienze sociali: siamo ovviamente in un campo che sconfina nella psicologia, soprattutto quando si attuano travestitismi, identità giocose, protagonismi, trasformazioni del sé. Tutti fenomeni in costante evoluzione, vedi per esempio il cosplay, che scompigliano le vecchie definizioni, abbattendo classificazioni, riferimenti, motivazioni e certo anche segmentazioni del mercato, ormai superati. Resta interessante, e giusto ricordare, la precoce analisi critica di Daniel Boorstin relativa alla lettura di un turismo “sopra le righe” quale sintomo di disagio maturato nelle società industriali, quasi una logica e conseguente aberrazione.[18] Come ha osservato il quotidiano inglese “The Guardian”, “Dopotutto, la serie Westworld tratta di escapismo redditizio (profitable escapism)”[19]
A distanza di più di mezzo secolo dalla teoria di Boorstin, oggi Wikipedia include la voce “escapismo” definendolo come una “forma estrema di svago, spesso attraverso metodi ricreativi, il cui scopo è estraniarsi da una realtà nei confronti della quale si prova disagio”. In questo senso, la partecipazione a rievocazioni storiche esotiste (nel tempo e nello spazio) avrebbe un valore terapeutico, riparando i danni esistenziali causati da stili di vita rutinari e frustranti.
Sicuramente escapista è il desiderio di vivere altrimenti, una vera e propria realtà parallela, quello che dimostrano i partecipanti alla rievocazione storica nel bel film L’età barbarica di Denys Arcand (L’Age des tenèbres, 2007). Dove il protagonista, un grigio impiegato ministeriale del Québec, stufo della moglie, estenuato dal pendolarismo e dalle vessazioni sul lavoro, complice un nuovo amore si cimenta in un pauroso torneo tra cavalieri in costume medievale. Con ciò non intendo sostenere che i reenactment attraggano soltanto escapisti, né che tutte le manifestazioni di rievocazione storica siano in qualche maniera compensatorie. Illustrando il caso specifico di Westworld si capisce quantomeno questo: se la Storia ha il merito di farci riflettere sul presente, la fantascienza non è da meno.
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[1] La serie televisiva, dieci episodi la prima stagione, ideata da Jonathan Nolan e Lisa Joy, ha debuttato negli Stati Uniti il 2 ottobre 2016 sul canale HBO. In Italia è stata trasmessa da Sky Atlantic dal 3 ottobre 2016 in versione originale sottotitolata, in simulcast con HBO, e dal 10 ottobre 2016 è stata doppiata in italiano. Nel corso del 2018 vedremo la seconda stagione. HBO (Home Box Office) è un'emittente televisiva statunitense di proprietà di Home Box Office, Inc., una divisione del gruppo Time Warner. È il servizio televisivo a pagamento più vecchio e in trasmissione da più tempo negli Stati Uniti, essendo in funzione dal 1972.
[2] Utilizzo questa terminologia ormai invalsa nella tradizione di studi di antropologia del turismo, con riferimento all’opera di Dean MacCannell Il turista. Una nuova teoria della classe agiata, UTET 2005 (The Tourist: A New Theory of the Leisure Class, 1976). Secondo questo vecchio classico, pietra miliare per una etnografia della modernità, il desiderio dei turisti sarebbe condividere la vita vera dei posti che visitano. Va da sé che in questo contesto locuzioni quali “vita vera” risultino aleatorie sino all’imbarazzo. Anche se nella visione dell’industria del turismo come business dell’illusione MacCannell, a tutt’oggi, rimane osservatore acuto e lungimirante.
[3] Michael Crichton è autore del romanzo di fantascienza Jurassic Park (1990), di cui Steven Spielberg acquistò i diritti di adattamento cinematografico ancora prima che venisse pubblicato, e che uscì poi nel 1993. Anche in “Jurassic Park”, creature frutto di ingegneria genetica destinate all’intrattenimento turistico si ribellavano ai frequentatori del parco a tema, seminando il terrore.
[4] Sul “turismo di Frontiera” l’antropologo Daniel Maher della University of Arkansas è piuttosto critico acuto. Luoghi come il Fort Smith National Historic Site, secondo lui, sono “più vicini parchi di divertimento che alla Storia (…) Quando la violenza del selvaggio del West è spiattellata fuori contesto, titilla gli impulsi peggiori col miraggio dell’impunità”. In Mark Boonshoft “HBO’s Westworld and the Realities of Living History”, saggio pubblicato online nel sito web The Junto. A Group Blog on Early American History, 26 ottobre 2016
[5] Descrizione e programmi del Western show Mini Hollywood si trovano sul sito web https://www.oasysparquetematico.com
[6] Haikyo, abandoned Japan. Sito web descrittivo del villaggio western abbandonato http://haikyo.org/western-village
[7] http://www.cowboyland.it Grazie all'attività svolta nel parco tematico western, la città di Voghera si è gemellata con quella di Cheyenne, capitale del Wyoming (USA).
[8] Mark Boonshoft “HBO’s Westworld and the Realities of Living History”, op. cit.
[9] “Westworld, le cinque perplessità di Zerocalcare”, 6 dicembre 2016. http://www.wired.it/play/televisione/2016/12/06/zerocalcare-westworld/
[10] ibid.
[11] L’episodio finale da 90 minuti è stato seguito in diretta da 2,2 milioni di spettatori, il 7% in più rispetto alla puntata precedente, e da 3,6 milioni durante le repliche notturne su HBO Now e HBO Go. In media sono stati 12 milioni gli spettatori che hanno seguito Westworld sulle varie piattaforme che lo hanno trasmesso. Si tratta di un vero e proprio record per una serie esordiente di HBO, che va a superare persino “True Detective” e “Il Trono di Spade”. Vedi il sito web https://farefilm.it/produzioni-e-set/numeri-da-record-lultima-puntata-di-westworld-che-si-rinnova-una-seconda-stagione-8671
[12] “Real Humans” (Äkta människor, in svedese), è una avvincente serie fantascientifica creata da Lars Lundström, andata in onda dal 2012 per due stagioni da dieci episodi ciascuna. La serie racconta le drammatiche vicende di una moderna cittadina svedese in cui vengono messi in commercio androidi dalle fattezze umane, che aiutano uomini e donne, in casa e al lavoro. Fino a sostituirsi agli umani, creando disoccupazione e conflitti. La trama mette in evidenza diverse problematiche filosofiche e antropologiche relative all’etica di questa convivenza. Una buona riflessione, in proposito, qui: http://filosofia-orconerocapoguerra.blogspot.it/2014/02/a-proposito-di-real-humans-akta-mannskor.html
[13] Cfr. Emmanuel Grimaud e Denis Vidal, “Aux frontières de l’humain. Pour une anthropologie comparée des créatures artificielles” in Robots étrangement humains, Gradhiva, “Revue d’anthropologie et d’histoire des artes”, Musée du Quai Branly, Paris, 2012.
[14] “Ad ogni modo, il divertimento, le sparatorie, le bizzarrie distopiche e le cacce al tesoro in salsa western sono solo un pretesto. Dietro tutto questo si cela il tentativo dell’autore di portarci a riflettere su questioni affilate. “La bellezza è un'esca”, ripete spesso la protagonista (Dolores). Cfr. il saggio “Westworld e la teoria del tutto” di Lorenzo Lodovichi pubblicato dalla rivista culturale online Doppiozero l’11 Gennaio 2017. http://www.doppiozero.com/materiali/westworld-e-la-teoria-del-tutto
[15] Westworld, le cinque perplessità di Zerocalcare, op. cit.
[16] Aldous Huxley, Le porte della percezione (1954), Oscar Saggi Mondadori, Milano 2003, pag. 49.
[17] Michel Houellebecq, Piattaforma, Bompiani, 2001, pag. 28.
[18] Daniel J. Boorstin, The Image: A Guide to Pseudo-Events in America, Harper and Row, New York 1962. Già a partire dagli anni Sessanta Boorstin elaborò una teoria della vacanza come pseudo-evento. Estraneo alla popolazione locale, il turista cercherebbe attrazioni “artefatte”, o pseudo-eventi, che di fatto gli precluderebbero la conoscenza della vera realtà vissuta dalla comunità ospitante. A sua volta, l’industria turistica e i nativi fornirebbero beni, servizi ed esperienze ad hoc per questo tipo di consumo inconsapevole.
[19] “The Guardian”, 6 Novembre 2016: The Guardian view on Westworld: science fiction’s fresh look at the present.
Una presentazione del volume, qui
http://fareantropologia.cfs.unipi.it/…/rievocare-il-passato/